La luna e i falò di Cesare Pavese
La luna e i falò è l'ultimo romanzo dello scrittore Cesare Pavese, scritto in pochi mesi nel 1949 e pubblicato nella primavera del 1950. Il romanzo presenta elementi autobiografici dello scrittore piemontese ed è quello che conclude la sua carriera di narratore.
Il romanzo è dedicato all'ultima donna della vita di Pavese, Constance Dowling.
La storia, raccontata in prima persona, non concerne solo il protagonista, di cui viene detto solo il soprannome Anguilla, ma tanti altri personaggi che entrano in relazione con lui, in un paese della valle del Belbo che non viene mai nominato ma che è Santo Stefano Belbo.
Il romanzo è un misto tra passato e presente e proprio per questo non è narrato nei minimi dettagli, ma vengono raccontati eventi che non sono (apparentemente) collegati tra loro, se non dai pensieri e dalle riflessioni del protagonista.
In trentadue capitoli il lettore si perde nei ricordi, spesso tristi, che Anguilla rivive con l'amico Nuto e capisce quanto sia importante per ognuno avere un paese, una famiglia, un punto di riferimento che leghi alla vita; di questo Anguilla si rende conto quando, lontano dalla sua valle, viene richiamato alla sua patria non da un amico o dalla patria stessa, bensì da quel senso di appartenenza al suo paese che lui si porta dentro insieme a tanta nostalgia.
La storia inizia quando Anguilla, tornato emigrante dall'America dopo la Liberazione, ritorna con il pensiero al momento in cui neonato era stato abbandonato sugli scalini del Duomo di Alba e quindi portato all'ospedale di Alessandria, dove era stato adottato da Padrino e la Virgilia che per questa adozione ricevevano una mesata di cinque lire.
Quando, successivamente alla morte di Virgilia e a una grandinata che distrusse la piccola vigna, Padrino decise di vendere il casotto dove vivevano, Anguilla si trasferì alla fattoria della Mora, dove iniziò a lavorare per la prima volta; c'era benessere in quel casale insieme a sor Matteo e alle tre figlie: Irene, Silvia e Santa (la più piccola e bella). Pur essendosi affezionato a loro, tornato dall'America, preferisce non rivedere quel luogo.
Per prima cosa, invece, Anguilla va a vedere la casa del Padrino, rimasta uguale, e conosce il nuovo proprietario, il Valino, e suo figlio, Cinto. Quest'ultimo gli fa ricordare i tempi in cui era ragazzo, quando Nuto, più grande di lui, trattandolo sin da allora da amico, cercava di insegnargli tutto ciò che sapeva; ecco: Anguilla vuole essere per Cinto ciò che Nuto era stato per lui.
Trascorrono molto tempo insieme, nasce anche un'amicizia tra loro e Cinto sa di potersi fidare di Anguilla e proprio per questo quando il Valino uccide la nonna e la zia, dà fuoco alla casa e si suicida, il ragazzo va subito da Anguilla, che insieme a Nuto cerca di tranquillizzarlo.
Anguilla sa che Irene e Silvia, come tanti altri, sono morte, ed entrambe male, ma gli rimane oscura la sorte di Santa, che Nuto gli rivela solo alla fine: di notevole bellezza sin da quando era piccola, la donna, inquieta, era diventata spia prima dei tedeschi e dopo dei partigiani, poi ancora dei tedeschi e dei repubblichini; proprio allora era stata giustiziata, ancora in giovane età.
È con la scoperta di questa triste vicenda che si conclude il romanzo, ma sicuramente non il viaggio di Anguilla. Da ragazzo pensava che il paese in cui viveva fosse tutto il mondo, ma ora che, viaggiando, ha capito come veramente è fatto il mondo, si rende conto che il proprio paese è in fondo la propria famiglia, «un paese vuol dire non essere mai soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.» Come lui stesso dice: «un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via.»
Anguilla però aveva sentito il bisogno di tornare, perché quegli stessi vigneti, alberi di fichi e valli non li ha trovati da nessun'altra parte; appena giunge alla valle del Salto si accorge che nulla è cambiato: ci sono gli stessi suoni, gli stessi odori e gli stessi sapori che il protagonista si è sempre portato dentro. È vero che lui ritrova la stessa vita di un tempo, ma sicuramente non le stesse persone: ritrova solo Nuto, il suo più caro amico e mentore, a cui rivela tutti i suoi pensieri e con il quale si perde nei ricordi passati, a volte anche allegri e spensierati, spesso tristi. Alla ricerca, sempre, anche inconsapevolmente, della consapevolezza: se non si può aggiustare il mondo - come vorrebbe la coscienza sociale di Nuto, che infine si scopre propria anche del protagonista -, almeno conoscere: gli archetipi, i ritmi, la terra, gli uomini e le loro storie, più spesso disperate, sempre inquiete.
Personaggi
Anguilla
Il protagonista del racconto, di cui non è specificato il nome e di cui si conosce solo il soprannome Anguilla, è un trovatello che al momento della narrazione ha circa quarant'anni. Consapevole di esserlo, sa che la campagna e i luoghi dove ha passato tutta la giovinezza non gli appartengono, benché l'unica cosa che abbia imparato è la vita nei campi. Così comincia a sentire, da quando rimane a fissare il cielo aperto, che deve viaggiare e conoscere il resto del mondo («volevo andare lontano […] ma che sia lontano, che nessuno del mio paese ci sia stato»). Dovunque vada però – Genova, diverse città in America e di nuovo la campagna – non si trova a suo agio, sentendosi solo e perduto e vedendo la sua vita un fallimento («capii che quelle stelle non erano le mie […] Valeva la pena essere venuto? Dove potevo ancora andare? Buttarmi dal molo?»).
Nuto
Amico intimo del protagonista, deciso, scaltro e sapiente. È per il protagonista un ideale di vita, una persona che non smette mai di stimare per i suoi comportamenti, le cose che sapeva, il suo modo di parlare e di suonare. D'altra parte Nuto sta volentieri con l'amico, anche se non sempre lo capisce, in particolare quando comincia il travagliato periodo dei viaggi incessanti.
Cinto
È un ragazzino con una malformazione alle gambe, la quale gli impedisce di muoversi agilmente e di condurre una vita al pari dei suoi coetanei. Egli impietosisce il protagonista, il quale cerca di interessarlo con i suoi racconti e di essergli amico, riconoscendo in Cinto la sua fanciullezza. Il protagonista però non prende il posto del padre quando il ragazzo rimane orfano, affidandolo a Nuto e promettendogli che l'avrebbe portato con sé quando sarebbe stato più grande.
Irene, Silvia e Santina
Sono le tre padroncine del protagonista; sono tutte tre bellissime e contese da molti giovani, partecipano frequentemente alla vita mondana del paese, appartenendo anche ad un ceto di grado elevato. Irene però viene condannata ad un infelice matrimonio, dopo essere stata smagrita dal tifo; Silvia muore per un aborto segreto e Santina creduta spia delle camicie nere viene giustiziata da alcuni brescianini.
Nel significato del titolo La luna e i falò vi è il chiaro riferimento mitico al ciclo delle stagioni che affianca tutte le vicende del destino dell'uomo. La luna, che ha qui funzione di simbolo, serve a scandire il ritmo dell'opera e ad instaurare il rapporto tra la terra e il cielo.
Il racconto è strutturato su due piani narrativi, quello dell'infanzia, con le sue scoperte e il desiderio di avventura e quello della maturità e della delusione. Ai bagliori dei falò, che venivano accesi di notte durante le feste contadine e riflettendosi nel cielo rappresentavano per il bambino un momento magico e di scoperta, si contrappongono altri falò che comportano per il protagonista la perdita delle illusioni e la decisione di lasciare il paese. Uno di questi falò è reso dall'autore in senso metaforico con l'episodio dell'incendio che il padre di Cinto appicca al "casotto di Gaminella" distruggendolo insieme al passato, mentre un altro fa riferimento a quanto accaduto a Santa. Ed è con le parole di Nuto che fanno riferimento alla fine della giovane che il romanzo si chiude:
« [...] gli chiesi se Santa era sepolta lì. - Non c'è caso che un giorno la trovino? Hanno trovato quei due... Nuto s'era seduto sul muretto e mi guardò col suo occhio testardo. Scosse il capo. - No, Santa no, - disse, - non la trovano. Una donna come lei non si poteva coprirla di terra e lasciarla così. Faceva ancora gola a troppi. Ci pensò Baracca. Fece tagliare tanto sarmento nella vigna e la coprimmo fin che bastò. Poi ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L'altr'anno c'era ancora il segno, come il letto di un falò. »
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