venerdì 26 febbraio 2010

Drusilla Tanzi e Montale





Montale conosce Drusilla Tanzi nel1929, quando viene nominato direttore del Gabinetto G.P. Vieusseux (nota istituzione culturale fiorentina ), lei era sposata con il critico d'arte Matteo Marangoni, ma diviene ben presto la sua compagna. Durante la loro relazione Montale conoscerà e frequenterà altre donne (Irma Brandeis e Maria Luisa Spaziani ) alle quali dedicherà alcuni suoi versi, ma la relazione con Drusilla tanzi non sarà mai interrotta. Si sposano nel 1962 e lei muore l'anno seguente.Dopo la sua morte le dedicherà la poesia " Ho sceso dandoti il braccio,almeno un milione di scale"

Eugenio Montale, "Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale"

La poesia appartiene alla sezione "Xenia" della raccolta "Satura", edita nel 1971 ma comprendente poesie scritte nell’arco di tempo che va dal 1956 a tutti gli anni sessanta, occasionate nella gran parte dal ricordo della moglie Drusilla Tanzi, cui sono dedicati appunto gli "Xenia", letteralmente doni fatti agli ospiti che partono. Montale compie, con questa raccolta, un passaggio che lo porta a superare, ma non a rinnegare, l’esperienza precedente, per assumere un tono colloquiale, prosastico, apparentemente più dimesso e con una larga disponibilità verso l’ironia pungente, la parodia, talvolta la polemica. Una disponibilità comunicativa tout court che non disdegna di prendere parte, con un notevole scarto rispetto all’atteggiamento tenuto da Montale verso la "storia" e il mondo esterno, anche a temi contemporanei, facendo riferimenti talora velati talaltra espliciti, a fatti di attualità, dispute, personaggi del mondo intellettuale o politico.

Il titolo stesso della raccolta, che rinvia ad un genere dal forte valore metastorico, è indicativo in tal senso: e qui andranno messi in evidenza, come elementi che accomunano la ricerca montaliana alla tradizione, il carattere autobiografico e la varietà dei temi trattati, l’attitudine soggettiva con cui sono trattati, la maggiore libertà delle soluzioni formali e metriche adottate, soluzioni che pure continano ad operare, quasi a riaffermare, a dispetto dell’impressione superficiale che si può trarre dalla lettura, la riaffermazione della poesia sulla prosa, una poesia i cui artifici, ridotti all’essenziale, sono "celati", come nella poesia "Ho sceso, dandoti il braccio".

In una struttura metrica sostanzialmente libera, formata per la gran parte da versi lunghi, tipici di uno stile discorsivo, e con due sole rime (quella dei vv. 6-7 "crede / vede" e quella dei vv. 10-12 "due / tue"), poste tuttavia entrambe in fine di strofa, la poesia, divisibile in due parti segnate dalla ripresa, con leggera modifica, dello stesso incipit ("Ho sceso..."), si caratterizza prima di tutto per la forte valenza della sua tessitura lessicale, incentrata in particolare sui campi semantici relativi al "viaggio" e al "vedere".

Il viaggio, o per estensione, il cammino si snoda attraverso tre diversi passaggi. Si tratta di un viaggio che il poeta immagina di avere compiuto, con il sostegno della moglie ("dandoti il braccio") attraverso "un milione di scale", metafora della vita. Un viaggio che, con efficace contrasto ossimorico, è stato breve nonostante i tanti gradini: "è stato breve / il nostro lungo viaggio". Questi primi quattro versi celano un parallelismo presenza/assenza, giocato su un rimando dall’asserzione iniziale, metaforica, dove al "dandoti il braccio" segue il "vuoto ad ogni gradino", all’asserzione esplicita dei vv. 3-4: "il nostro... viaggio / il mio dura tuttora". Questo paralellismo ne contiene un altro tra un prima e un dopo che trova la sua esplicitazione nel doppio passaggio dal passato prossimo al presente ("Ho sceso... / ... è", "è stato... / ...dura"). Al viaggio che il poeta compie nel presente non occorrono più coincidenze o prenotazioni. Qui si allude ad un tratto significativo del rapporto con la moglie scomparsa, che trova riscontro in molti degli "Xenia", dove Drusilla Tanzi è affettuosamente ritratta come una donna premurosa, dotata di senso pratico e capace di quel sereno rapporto con il mondo esterno (e gli Xenia sono, in questo senso, una galleria di personaggi che la moglie avrebbe accolto in virtù di questa sua maggiore disponibilità: Celia la filippina, il signor Capp, le telefoniste del Saint James), che permetteva a Montale di non sentirsi spaesato di fronte a quelle che subito dopo chiama "le trappole, gli scorni di chi crede / che la realtà sia quella che si vede", con un significativo passaggio dal concreto all’astratto, da un tono discorsivo ad uno più riflessivo, passaggio sottolineato anche dalla struttura dei versi: dalla dilatazione del v. 5, formato da due sole parole lunghe, si salta alla concentrazione dei vv. 6-7, dove il ritmo è dato dalla presenza di parole più brevi, anche monosillabiche e dalla rima perfetta "crede / vede".

Il tema del vedere, anch’esso presente negli "Xenia", in particolare nel componimento dove Montale immagina un incontro "metafisico" mancato con la moglie, che non può vederlo perché non ha occhiali, che ha un ironico contrappunto qui nel "sebben tanto offuscate" del v. 11, è strettamente connesso a quello del viaggio: il "braccio" altro non è che quella "vista" che permette al poeta di scendere le scale, come esemplificato nella seconda parte della poesia.

Qui domina un accumulo lessicale relativo ai campi semantici del vedere e dello scendere: l’atto di vedere è successivamente espresso con "occhi", "vede", "pupille... offuscate"; l’atto di scendere ("Ho sceso... / le ho scese") ricorre ai vv. 8 e 10. A livello sintattico, l’andamento ipotattico, che contempla due proposizioni causali di cui una negativa ("non già perché...") e una concessiva, ha un esito prosaico che contrasta con la linearità della prima parte, basata sulla giustapposizione di elementi e sulla coordinazione. Tale esito è però contraddetto dal senario finale, "erano le tue", che cade come una sentenza spezzando il ritmo dei versi precedenti.

"Ho sceso, dandoti il braccio", non diversamente dagli altri componimenti che fanno parte della raccolta "Satura", è una poesia malinconica e leggera al tempo stesso. Il suo tono dimesso non cade mai nella retorica, così come il tono ironico di certi passaggi non scade mai nel frivolo, non diventa mai parodia. Il personaggio di "mosca", il caro piccolo insetto della prima poesia degli "Xenia", è una presenza calda e affettuosa, ma non ha nulla di ideale né di trascendente, eppure non perde nulla della sua forza lirica nell’accostamento a oggetti e situazioni di tipo quotidiano. L’ironia di Montale agisce, a ben vedere, in profondità, con uno scarto appena accennato dal discorso che ne ribalta, inaspettatamente, l’apparente assertività: è così per la chiusura della prima strofa dove improvvisamente i piccoli gesti quotidiani della donna, quelli che riempiono di senso la discesa di un milione di scale diventano trappole, scorni, sono ricondotti a una mentalità che ritiene la realtà di tali gesti l’unica possibile. Lo stesso si può dire di due punti della seconda strofa: il "forse" del v. 9, che limita l’enunciato "con quattr’occhi... si vede di più" è a sua volta inserito in una frase che sembra essa stessa una preterizione, un negare per affermare; il "sebbene tanto offuscate" limita la sentenziosità dell’ultima asserzione.

http://it.wikipedia.org/wiki/Eugenio_Montale#Xenia_e_Satura






Le poesie della raccolta Xenia I sono Caro piccolo insetto... Senza occhiali ne antenne... A Saint James di Parigi dovrò chiedere... Avevamo studiato per l'aldilà un fischio... Non ho mai capito se io fossi... Non hai pensato mai di lasciare traccia...
Pietà di sè infinita pena e angoscia.. La tua parola così stenta e imprudente... Ascoltare era il tuo solo modo di vedere... Pregava? Sì pregava Sant'Antonio... Ricordare il tuo pianto (il mio era doppio)... La primavera sbuca con il suo passo da talpa... Tuo fratello morì così giovane, tu eri.. Dicono che la mia... Xenia II La tua morte non ti riguardava... Ho sceso, dandoti il braccio almeno un milione di scale Spesso ti ricordavi (io poco) del signor Cap...
Il vinattiere ti versava un poco... Con astuzia... L'abbiamo rimpianto a lungo l'infila scarpe... Non sono mai stato certo di essere al mondo.. E il Paradiso? Esiste un paradiso? Le monache, le vedove, mortifere... Dopo lunghe ricerche..
Riemersa da un'infinità di tempo.. I falchi... Ho appeso nella mia stanza il dragherrotipo... L'alluvione ha sommerso il palk dei mobili...

giovedì 25 febbraio 2010

Leone Ginzburg


Leone Ginzburg  (marito di Natalia)

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.


Leone Ginzburg (Odessa, 4 aprile 1909 – Roma, 5 febbraio 1944) è stato un letterato e antifascista italiano, uno dei principali animatori dellacultura italiana negli anni trenta.
Biografia [modifica]
Di famiglia ebraica, e di origine ucraina, frequentò in un primo momento il liceo classico "Massimo d'Azeglio", a Torino, dove conobbe Vittorio Foa.
Dopo la maturità al Liceo Classico Vincenzo Gioberti di Torino, fu studioso e docente di letteratura russa, partecipò allo storico gruppo di intellettuali di area socialista e radical-liberale (tra gli altri, Norberto Bobbio, Vittorio Foa, Cesare Pavese, Carlo Levi, Elio Vittorini, Massimo Mila, Luigi Salvatorelli) che collaborarono alla nascita a Torino della casa editrice Einaudi.
In campo politico fu un federalista convinto, attivo antifascista, tra i fondatori del movimento "Giustizia e Libertà". Fu per questo arrestato nel1934 e condannato a quattro anni di carcere. Rilasciato nel 1936 in seguito a un'amnistia, proseguì la sua attività letteraria e di antifascista.
Nel 1938 sposò Natalia Ginzburg, dalla quale ebbe tre figli: Carlo, poi divenuto noto storico, Andrea, economista, e Alessandra, psicanalista.
Nel 1940 fu condannato al confino politico in Abruzzo.
Liberato nel 1943 alla caduta nel fascismo, si spostò a Roma dove fu uno degli animatori della Resistenza nella capitale. Nuovamente catturato e incarcerato a Regina Coeli, dove fu torturato dai tedeschi perché si rifiutò di collaborare. Morì in carcere, in conseguenza delle torture subite, nel febbraio 1944.

Saranno pubblicati postumi la raccolta di saggi Scrittori russi nel 1948 e il volume di Scritti nel 1964.



Giuseppe Levi (padre di Natalia)



Giuseppe Levi (padre di Natalia)
Giuseppe Levi (Trieste, 14 ottobre 1872 – Torino, 1965) è stato uno scienziato, medico e anatomista italiano.
Giuseppe Levi nacque in una famiglia di banchieri ebrei, da Michele e Antonia Parente.
La formazione 
Alla morte del padre l'intera famiglia si trasferì a Firenze ove egli ebbe modo di frequentare la Facoltà di Medicina, presso la quale fu allievo di Alessandro Lustig, microbiologo di origine triestina, direttore dell'Istituto di Patologia generale.
Laureatosi nel 1895, iniziò a dedicarsi ad attività di ricerca presso il locale Istituto di Anatomia umana diretto da Giulio Chiarugi, focalizzando la propria attenzione sull'istologia dei tessuti nervosi. In questo filone di ricerca, che l'avrebbe impegnato per tutta la vita professionale, si contraddistinse per la sistematica applicazione, pionieristica per quei tempi, di tecniche di coltura in vitro.
La carriera accademica e scientifica 
Ottenuta nel 1902 la libera docenza, ricevette un incarico presso la Stazione Zoologica di Napoli.
Vincitore di cattedra, si stabilì a Sassari nel 1910, per approdare nel 1914 a Palermo dove rimase per cinque anni. Nella parentesi palermitana, scoppiata la Prima guerra mondiale, si arruolò come ufficiale medico volontario in Cadore. Nel 1919 si trasferì a Torino, per assumere la direzione dell'Istituto di Anatomia Umana che, sotto la sua guida, raggiunse livelli scientifici di rilievo internazionale, riuscendovi ad attrarre finanziamenti da parte della Fondazione Rockefeller e indirizzando numerosi allievi verso l'attività di ricerca. È da rimarcare come per l'Istituto da lui diretto siano passati, fra l'altro, tre studenti che sarebbero stati insigniti del Premio Nobel: Salvador E. Luria, Rita Levi-Montalcini e Renato Dulbecco.
L'antifascismo, le leggi razziali e la fuga all'estero 
Negli stessi anni non nascose le proprie posizioni di dissenso al fascismo, manifestando simpatie e coltivando frequentazioni con personalità di opposizione politica al regime, tra cui Filippo Turati e Anna Kuliscioff.
Una serie di arresti toccarono la sua famiglia e il suo entourage tanto che egli stesso, nel 1938, subì una detenzione di alcune settimane.
A seguito dell'applicazione delle Leggi Razziali, fu privato della cattedra e radiato dalle società accademiche italiane di appartenenza. Riparato all'estero, proseguì per due anni l'attività di ricerca presso l'Università di Liegi, fino a quando l'invasione tedesca del Belgio non lo spinse a rimpatriare.
Il ritorno in Italia 
Ritornato in Italia, attese ancora a ricerche sperimentali utilizzando l'improvvisato e semi-clandestino laboratorio casalingo allestito dalla sua allieva Rita Levi-Montalcini.
Nel 1945, dopo la liberazione, venne reintegrato nell'insegnamento e nelle società accademiche di appartenenza.
Nel 1947 il Consiglio Nazionale delle Ricerche gli affidò la direzione del ‘‘Centro di Studio sull'accrescimento e sulla senescenza degli organismi.
Ammalatosi di cancro allo stomaco, morì a Torino nel 1965.
Onorificenze 

Fu socio dell'Accademia dei Lincei e dell'Accademia nazionale delle scienze (detta Accademia dei XL) oltre che di numerose altre Istituzioni culturali e scientifiche nazionali ed estere.
Curiosità 

Sposato nel 1901 con Lidia Tanzi, di famiglia non ebrea, fu padre di cinque figli, Paola (prima moglie di Adriano Olivetti), Alberto, Mario, Gino e Natalia, scrittrice italiana meglio nota come Natalia Ginzburg. Sarà proprio lei a consegnarcene un indimenticabile ritratto privato, tratteggiato con quella levità di tocco e unicità di linguaggio che contraddistinguono il suo capolavoro, Lessico famigliare, edito nel 1963.
Ebbe, come allievo prima, amico e collaboratore poi, Tullio Terni che, epurato anche lui per motivi razziali, caduto il fascismo, fu al centro di un infelice caso di epurazione che lo condusse ad un polemico suicidio nel primo anniversario della Liberazione.

Carlo Ginzburg figlio di Natalia Levi Ginzburg

Carlo Ginzburg (Torino, 1939) è uno storico, scrittore e saggista italiano.


Figlio di Leone Ginzburg e Natalia Ginzburg, ha studiato alla Normale di Pisa, quindi al Warburg Institute di Londra; ha insegnato Storia moderna all'Università di Bologna e poi nelle Università Harvard, Yale e di Princeton e Università della California, Los Angeles (in quest'ultima città è stato titolare, sul finire degli anni ottanta, di una cattedra di Storia del Rinascimento italiano). Dal 2006 detiene la cattedra di Storia delle Culture Europee alla Normale di Pisa.

Attento studioso degli atteggiamenti religiosi e delle credenze popolari all'esordio dell'età moderna, ha pubblicato nel 1966, I Benandanti una ricerca sulla società contadina friulana del '500, che illumina, sulla base di un cospicuo materiale documentario relativo ai processi inquisitoriali, il rapporto dialettico tra un complesso sistema di credenze capillarmente diffuse nel mondo contadino, esito dell'evoluzione di un antico culto agrario, e la sua interpretazione da parte degli inquisitori, che tendono ad una semplificante equiparazione con i codificati moduli dellastregoneria. Ne Il formaggio e i vermi (1976), prende invece in esame le vicende di un mugnaio del XVI secolo, Menocchio, per due volte sottoposto a processo da parte dell'Inquisizione Romana, una prima volta condannato al carcere a vita (fu poi liberato con un atto di clemenza per le cattive condizioni di salute e per la precaria situazione economica della sua famiglia) mentre la seconda volta fu arso al rogo come relapso e pertinace. In questo libro Ginzburg evidenzia, ancora una volta sulla base di una raffinatissima analisi delle carte processuali, i diversi aspetti dell'universo sorprendentemente variegato degli orientamenti culturali, filosofici, politici e religiosi di Menocchio, soltanto in minima parte riconducibile agli influssi della cultura "alta".

In virtù dell'esperienza maturata nel campo della ricerca relativa alla storia delle mentalità, condotta generalmente mediante l'analisi di figure apparentemente poco importanti, ma giudicate emblematiche di orientamenti in realtà ampiamente diffusi, è stato invitato a scrivere il saggioFolklore, magia, religione per il primo volume della Storia d'Italia della Einaudi (I caratteri originali).

Con il saggio Occhiacci di legno si aggiudica nel 1998 il Premio Viareggio per la saggistica.

È Accademico Corrispondente dell’Accademia delle Arti del Disegno, Firenze, e membro onorario dell’American Academy of Arts and Sciences. Ha ricevuto il Prix Aby Warburg nel 1992 e, nel 2005, il Premio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei, per le scienze storiche. I suoi libri sono tradotti in più di venti lingue.






http://it.wikipedia.org/wiki/Carlo_Ginzburg

Gabriele Baldini secondo marito di Natalia Levi Ginzburg

Gabriele Baldini (Roma, 1919 – 1969) è stato un critico letterario e saggista italiano.

Figlio di Antonio Baldini, fu professore di letteratura inglese presso l'università di Roma. Nel 1950 sposò Natalia Ginzburg, vedova di Leone Ginzburg.
Curò una rigorosa edizione dell'intera opera di William Shakespeare e pubblicò numerosi ed apprezzati studi sulla letteratura inglese dal medioevo all'ottocento.
Tradusse anche Oliver Goldsmith, Theodore Dreiser, Edgar Allan Poe, Ero e Leandro e Edoardo II di Christopher Marlowe, La duchessa d'Amalfi di John Webster, 1984 di George Orwell, L'airone di Charles Morgan, L'uomo che diventò donna di Sherwood Anderson, Il terzo uomo eL'idolo infranto di Graham Greene, La mia Antonia di Willa Cather e La saga di Tietjens di Ford Madox Ford.
Appassionato di musica e di cinema, svolse inoltre attività di critico cinematografico e sceneggiatore (per «I promessi sposi» di Mario Camerini) e scrisse anche, uscito postumo, un saggio biografico sull'opera di Giuseppe Verdi.

Antonio Baldini suocero di Natalia Levi Ginzburg

Antonio Baldini (Roma, 10 ottobre 1889 – Roma, 1962) è stato uno scrittore, giornalista e saggista italiano.

Biografia
Gli studi
Antonio, figlio del conte Gabriele Baldini e di Sofia Alkaique, nacque a Roma dove frequentò i vari ordini di scuole e, dopo aver conseguito la maturità classica, si iscrisse alla Facoltà di Lettere presso l'Università di Roma dove si laureò nel 1916.

Nel periodo degli studi universitari ebbe modo di conoscere Emilio Cecchi, Vincenzo Cardarelli e Riccardo Bacchelli con i quali strinse forte sodalizio e insieme a loro partecipò alla fondazione della rivista "La Ronda".
L'attività giornalistica

Nel 1915 il giovane Antonio aveva iniziato l'attività di giornalista e scriveva sulla terza pagina dell'"Idea Nazionale", la stessa rivista che l'anno seguente gli diede l'incarico di inviato speciale al fronte di guerra.

Al termine della guerra collaborò saltuariamente all'"Illustrazione italiana", alla "Tribuna", al "Resto del Carlino" e dal 1924 iniziò a scrivere regolarmente i suoi articoli sul "Corriere della Sera".

Nel 1931 ebbe l'incarico come redattore della "Nuova Antologia" della quale in seguito ne diventerà il direttore letterario.

Nel 1939 venne nominato accademico d'Italia e negli anni cinquanta ebbe numerosi riconoscimenti tra i quali la nomina a socio corrispondente del Lincei (1953-1957) e il premio "Feltrinelli" per la letteratura. Nel 1951 fu nominato presidente della Quadriennale Nazionale d'Arte di Roma.
L'attività di scrittore

Accanto all'attività giornalistica, Baldini coltivava quella di scrittore e già nel 1914 aveva esordito con il racconto "Pazienze e impazienze di Maestro Pastoso" che venne pubblicato a Roma dall'editore Giuseppe Ugo Nalato.
I racconti

Faranno seguito "Nostro Purgatorio. Fatti personali delle guerra italiana 1915-1917", il racconto "Michelaccio" pubblicato singolarmente daTreves e la raccolta intitolata "La dolce calamita overo La donna di nessuno".

Nel 1932 scrisse e pubblicò per conto di Vallecchi una serie di ritratti di pittori e scrittori con il titolo Amici allo spiedo e nel 1942 un volume diprose cosiddette "romane" in un volume edito da Bompiani.
I diari di viaggio

Notevoli sono i suoi testi che narrano delle sue esperienze di viaggio, tra i quali "La vecchia del Bar Bullier" del 1934, "Italia del Bonincontro" del1940 "Diagonale 1930 Parigi-Ankara. Note di viaggio." del 1943, "Melafumo "del 1950 e il "Doppio Melafumo" del 1955.
I saggi

Tra i saggi critici di maggiore significato devono essere ricordati quelli sull'Ariosto, "Ludovico della tranquillità" del 1933 e "Fine Ottocento. Carducci, Pascoli, D'Annunzio e minori" pubblicato da Le Monnier nel 1947.

martedì 23 febbraio 2010

Eugenio Montale citato in Lessico famigliare in veste di compagno della zia Drusilla

« Per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni. »

(Motivazione del Premio Nobel)


Eugenio Montale (Genova, 12 ottobre 1896 – Milano, 12 settembre 1981) è stato unpoeta, giornalista e critico musicale italiano, premio Nobel per la letteratura nel 1975.

Eugenio Montale nasce a Genova, in Corso Dogali, nella zona soprastante Principe, il 12 ottobre 1896, in una famiglia di commercianti. Un nipote del poeta, così delinea in una sua Cronaca famigliare del 1986 i tratti caratteriali di Eugenio Montale:
« Ultimo di sei figli, il giovane Eugenio gode di quella libertà un po' trascurata e malinconica che di solito è riservata all'ultimo di molti fratelli. »
Formazione
E infatti, sebbene per lui, ai più lunghi studi classici, vengano preferiti quelli tecnici, a causa della sua salute precaria, e nel 1915 venga iscritto all'Istituto tecnico commerciale "Vittorio Emanuele", dove si diplomerà in ragioneria, il giovane Montale ha tutto l'agio di coltivare i propri interessi prevalentemente letterari, frequentando le biblioteche cittadine e assistendo alle lezioni private di filosofia della sorella Marianna, iscritta a Lettere e Filosofia.
La sua formazione è dunque quella tipica dell'autodidatta, che scopre interessi e vocazione attraverso un percorso libero da condizionamenti che non siano quelli della sua stessa volontà e dei limiti personali. Letteratura (Dante in primo luogo) e lingue straniere sono il terreno in cui getta le prime radici l'immaginario montaliano; assieme al panorama, ancora intatto, della Riviera ligure di levante: Monterosso al Mare e le Cinque Terre, dove la famiglia trascorre le vacanze.
In questo periodo di formazione Montale coltiva inoltre la passione per il canto, studiando dal 1915 al 1923 con l'ex baritono Ernesto Sivori, esperienza che lascia in lui un vivo interesse per la musica. La sua bravura gli farà ricevere nel 1942 una dedica da Tommaso Landolfi, fondatore con altri della rivista Letteratura su cui pubblicherà alcune poesie lo stesso Montale:
« Era mio intento testimoniare qui pubblicamente la mia riconoscenza a Eugenio Montale, il celebre baritono profondo (o basso cantante, singing bass), che mi fu largo di consigli e incoraggiamenti durante la redazione dei tre capitoli che seguono. Debbo rinunziarvi per sua espressa volontà: così grande è la sua modestia! Essa è anzi tale che il Maestro fa ben poco caso della sua universal fama d'artista lirico e volentieri - ebbe egli medesimo a confessarmi - la cambierebbe con una anche più modesta nell'arengo delle patrie lettere: debolezze d'uomini illustri! (Da sapere, infatti, che il Montale è autore di due libretti di poesie; non prive al certo di pregio, ancorché lontane dall'eccellenza ch'egli ha raggiunta sulle scene liriche). »
( Tommaso Landolfi, Nota a Da: «La melotecnica esposta al popolo», in La spada, 1942)
Grande Guerra e primo dopoguerra
Entrato all'Accademia militare di Parma, fa richiesta di essere inviato al fronte, e dopo una breve esperienza bellica in Vallarsa e Val Pusteria, viene congedato nel 1920.
«Scabri ed essenziali», come egli definì la sua stessa terra, gli anni della giovinezza delimitano in Montale una visione del mondo in cui prevalgono i sentimenti privati e l'osservazione profonda e minuziosa delle poche cose che lo circondano – la natura mediterranea e le donne della famiglia. Ma quel "piccolo mondo" è sorretto intellettualmente da una vena linguistica nutrita di instancabili letture, le più proficue che si possano desiderare: quelle finalizzate al solo piacere della conoscenza e della scoperta. E in quella periferia d'Europa, negli stessi anni in cui D'Annunzio rimbomba per tutta la penisola, Montale ha la fortuna di scoprire non tanto una vocazione di poeta, quanto l'amore per la poesia.
Avvento del Fascismo
Montale ha scritto relativamente poco: quattro raccolte di brevi liriche, un "quaderno" di traduzioni di poesia e vari libri di traduzioni in prosa, due volumi di critica letteraria e uno di prose di fantasia. A ciò si aggiunga la collaborazione al Corriere della sera, ed è tutto. Il quadro è perfettamente coerente con l'esperienza del mondo così come si costituisce nel suo animo negli anni di formazione, che sono poi quelli in cui vedono la luce le liriche della raccolta Ossi di seppia. È il momento dell'affermazione del fascismo, dal quale Montale prende subito le distanze sottoscrivendo nel 1925 il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Montale vive questo periodo nella "reclusione" della provincia ligure, che gli ispira una visione claustrofobica e impotente della vita di cui non è tuttavia del tutto consapevole, almeno fino agli anni della maturità, nella nuova stagione dell'impegno civile neorealista.
L'emarginazione sociale a cui era condannata la classe di appartenenza, colta e liberale, della famiglia, acuisce nel poeta la percezione del mondo, la capacità di penetrare nelle impressioni che sorgono dalla presenza dei paesaggi naturali: la solitudine genera il colloquio con le cose, quelle piccole e insignificanti della riviera ligure, o quella lontana e suggestiva del suo orizzonte, il mare. Una natura "scarna, scabra, allucinante", e un "mare fermentante" dal richiamo ipnotico, come solo quello mediterraneo abbacinato dal sole può suscitare. In una vita che appare già sconfitta prima ancora di cominciare, la natura ispira un sentimento di dignità profonda ed essenziale che è lo stesso che si prova leggendo le liriche del poeta.
Soggiorno a Firenze
Montale giunge a Firenze nel 1927 per il lavoro di redattore ottenuto presso l'editore Bemporad. Nel capoluogo toscano gli anni precedenti erano stati decisivi per la nascita della poesia italiana moderna, soprattutto grazie alle aperture della cultura fiorentina nei confronti di tutto ciò che accadeva in Europa. Le Edizioni de La Voce; i Canti orfici di Dino Campana (1914); le prime liriche di Ungaretti per Lacerba; e l'accoglienza che poeti come Vincenzo Cardarelli e Umberto Saba avevano ricevuto presso gli editori fiorentini: tutto ciò aveva gettato le basi di un profondo rinnovamento culturale che neppure la censura fascista avrebbe potuto spegnere.
Montale dunque entra silenziosamente, ma con l'impressionante "biglietto da visita" dell'edizione degli Ossi del '25, nell'officina della poesia italiana. Nel 1929 è chiamato a dirigere il Gabinetto scientifico letterario G. P. Vieusseux (ne sarà espulso nel 1938 dal fascismo); nel frattempo collabora alla rivista Solaria, frequenta i ritrovi letterari del caffè Le Giubbe Rosse conoscendovi Carlo Emilio Gadda e Elio Vittorini, e scrive per quasi tutte le nuove riviste letterarie che nascono e muoiono in quegli anni di incessante ricerca poetica.In questo contesto provò anche l'arte pittorica imparando dal Maestro Elio Romano l'impasto dei colori e l'uso dei pennelli.
La vita a Firenze però si trascina per il poeta tra incertezze economiche e fragili rapporti sentimentali; i suoi "libri della vita" sono Dante e Svevo, coi classici americani; degli innumerevoli altri non parla se non indirettamente, attraverso le tracce da essi lasciate nella sua opera. Fino al 1948, l'anno del trasferimento a Milano, egli pubblica le grandi raccolte poetiche Le occasioni e La bufera e altro. Montale ha dunque coltivato la propria "vena" poetica nell'atmosfera raccolta e amichevole di un mondo di intellettuali che il fascismo condanna a un deprimente silenzio, non tanto con imposizioni violente quanto con la forza schiacciante di un conformismo di massa che rende vano ogni tentativo di rivolta e invisibile la differenza di chi non vuole adattarsi. In questa clausura, il lavoro, l'amicizia e lo scambio intellettuale sono però profondi e decisivi, tanto che Franco Fortini può dire che la poesia di Montale (con particolare riferimento proprio agli Ossi e a Le Occasioni) è parsa, a partire dagli anni sessanta, la più alta di tutto il Novecento italiano.

Soggiorno a Milano
« L'argomento della mia poesia (...) è la condizione umana in sé considerata: non questo o quello avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l'essenziale col transitorio (...). Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia »
(E. Montale in "Confessioni di scrittori (Intervista con se stessi)", Milano 1976)
L'ultima tappa del viaggio di Montale nel mondo è Milano (dal 1948 alla morte). Diventato collaboratore del Corriere della sera, scrive critiche musicali e reportage culturali da vari paesi (fra cui il Medio Oriente, visitato in occasione del pellegrinaggio di Papa Paolo VI in Palestina). Scrive altresì di letteratura anglo-americana per la Terza Pagina, avvalendosi della collaborazione preziosa quanto segreta dell'amico americano Henry Furst (New York, 1893- La Spezia, 1967) il quale gli invia molti articoli su autori e argomenti richiesti dallo stesso Montale, poi comparsi con minime varianti a firma di quest'ultimo, sul quotidiano di via Solferino. La vicenda venne rivelata da Mario Soldati nel racconto "Due amici", per l'appunto Montale e Furst, nel volume "Rami secchi" edito presso Rizzoli nel novembre 1989 e soprattutto, prim'ancora dell'uscita di tale volume, da Marcello Staglieno, con la pubblicazione su un'intera Terza Pagina del "Giornale" diretto da Montanelli di alcune delle lettere inedite di Montale all'amico (avute anni prima dalla vedova di Furst, la scrittrice Orsola Nemi), lettere che comprovavano tale vicenda non propriamente elegante per Montale, ripresa con un certo clamore da tutta la stampa italiana (si veda Marcello Staglieno, a cura di, "«Enrico aiutami: è una vita impossibile», lettere inedite di Eugenio Montale a Henry Furst", in "Il Giornale", 24 ottobre 1989, p.3, che comprende la prosa poetica montaliana, dedicata a Furst, "Il lieve tintinnìo del collarino", 1943).
Per tornare al "viaggiare" , esso non è parte dell'immaginario poetico montaliano; non per nulla l'antologia dei suoi reportage porta il titolo di Fuori di casa (1969). Il mondo di Montale è la "trasognata solitudine" (A. Marchese) del suo appartamento milanese di via Bigli.
Questo poeta, che ha cantato il mare e l'ultima donna-angelo della poesia italiana, è "della razza di chi rimane a terra": non è l'infinito il suo mondo, né del mare né del cielo, ma il mistero indecifrabile, e forse inesistente, degli oggetti quotidiani che accompagnano il disincanto di un poeta che non vuole dirsi tale.
Le ultime raccolte di versi, Xenia (dedicata alla moglie Drusilla Tanzi, dopo la morte di lei nel 1963), ('66), Satura ('71) e Diario del '71 e del '72 ('73), testimoniano in modo definitivo il distacco del poeta - ironico e mai amaro - dalla Vita con la maiuscola: «pensai presto, e ancora penso, che l'arte sia la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso o un surrogato» (Montale, Intenzioni. Intervista immaginaria, Milano 76). Nel poeta ligure confluiscono quegli spiriti della "crisi" che la reazione anti-dannunziana aveva generato fin dai Crepuscolari: tutto ciò che era stato scritto con vena ribelle nel brulicante mondo poetico italiano tra le due guerre, in lui diventa poesia vera ed alta, l'ultima possibile prima di scoprire altre ragioni per essere poeti. E paradossalmente, il poeta più trasognato e "dimesso" del novecento italiano, è anche stato il più carico di riconoscimenti ufficiali: lauree ad honorem (Milano '61, Cambridge '67, Roma '74), nomina a senatore a vita nel '67 e premio Nobel nel '75. Nel pieno del dibattito civile sulla necessità dell'impegno politico degli intellettuali, Montale continuò ad essere il poeta più letto in Italia. A testimonianza forse del fatto che il compito della poesia non è mai stato quello di dare risposte ma di rieducare a guardare il mondo.
Eugenio Montale muore a Milano alle 21.18 del 12 settembre 1981 un mese prima di compiere 85 anni nella clinica San Pio X dove si trovava ricoverato per problemi derivati da una vascolopatia cerebrale. Viene sepolto a San Felice a Ema, accanto alla moglie Drusilla.





Drusilla Tanzi e Montale

Felice Casorati



Felice Casorati (Novara, 4 dicembre 1883 – Torino, 1º marzo 1963) è stato un pittore italiano.

Le origini
Il padre ufficiale di carriera e pittore dilettante, Felice Casorati proveniva da una famiglia che aveva dato all'Italia matematici e scienziati di fama. Casorati trascorse l'infanzia a Milano, Reggio Emilia, Sassari e, infine, a Padova, dove si dedicò agli studi musicali con un'intensità tale da rimanere vittima di un esaurimento nervoso all'età di diciotto anni. Durante un periodo di riposo a Praglia, sui colli Euganei, cominciò a dipingere, eseguendo la prima opera nota, un paesaggio padovano del 1902.

Laurea in legge

Nel 1906 si laureò in legge all'università di Padova, decidendo tuttavia di dedicarsi alla carriera artistica. Ritratto di signora, un'elegante immagine della sorella Elvira, fu ammesso dalla giuria alla Biennale di Venezia nel 1907. A Napoli dal 1908 al 1911, studiò l'opera di Pieter Brueghel Il Vecchio, nella collezione del Museo Nazionale.

Le influenze artistiche

Le sue opere furono esposte alla Biennale del 1909 e del 1911; in questa seconda occasione rimase fortemente impressionato dalla sala dedicata a Gustav Klimt. Lo stile simbolico e decorativo della Secessione viennese influenzò in maniera determinante le successive opere di Casorati. Tra il 1911 e il 1915 visse a Verona fondando insieme con altri, nel 1914, la rivista La Via Lattea, alla quale collaborò con illustrazioni di stile art nouveau alla maniera di Jan Toorop e Aubrey Beardsley. Durante gli ultimi anni fu vicino agli artisti di Ca' Pesaro, Arturo Martini, Gino Rossi, Umberto Moggioli, Pio Semeghini, il cui orientamento europeo lo introdusse ai recenti sviluppi artistici di Parigi e Monaco.
Casorati e Torino [modifica]

Casorati fu arruolato nell'esercito nel 1915. Alla morte del padre nel 1917 si trasferì con la famiglia a Torino, divenendo ben presto una figura centrale nei circoli intellettuali della città. Strinse rapporti di amicizia con il compositore Alfredo Casella e con Piero Gobetti, aderendo nel 1922al gruppo della "Rivoluzione Liberale". Nel 1923, in conseguenza dell'amicizia con l'antifascista Gobetti, subì un arresto e alcuni giorni di carcere; dopo quell'episodio evitò di entrare in conflitto aperto con il regime. A Torino nel 1921 Casorati aprirà una scuola di pittura per giovani artisti, un'esperienza completamente nuova e lontana da ogni sistematicità d'accademia, allievi con cui esporrà nel 1929 alla mostra "Casorati fra i discepoli", accompagnata da un testo di Giacomo Debenedetti in cui sono ricordati, tra gli allievi, Silvio Avoldo, Nella Marchesini, Daphne Maugham, Marisa Mori, Andrea Cefaly junior, Sergio Bonfantini, Albino Galvano, Paola Levi Montalcini, Lalla Romano, Riccardo Chicco.

La prima personale

Nelle opere della maturità, nel periodo post bellico, come il Ritratto di Silvana Cenni del 1922 e Meriggio del 1923, al dettaglio decorativo si sostituì la meditazione di una forma essenziale, influenzata dalle costruzioni spaziali matematiche della pittura quattrocentesca e, in particolare, dall'atmosfera di immobilità tipica dell'opera di Piero della Francesca. Nel 1924 Casorati tenne una personale alla Biennale, accompagnata da un autorevole saggio di presentazione in catalogo di Lionello Venturi.

Il "realismo magico"

La purezza cristallina e il tono enigmatico delle composizioni casoratiane contribuirono a delineare il "realismo magico", condiviso in origine dal gruppo di Novecento. Pur partecipando alle mostre del "Novecento italiano" del 1926 e del 1929, Casorati si mantenne tuttavia autonomo rispetto al movimento di Margherita Sarfatti. Nel corso degli anni venti assunse un ruolo guida nella vita culturale italiana. Nel 1923 aprì nello studio di via Mazzini a Torino una scuola per giovani artisti; tra gli allievi ebbe Francesco Menzio, Carlo Levi, Gigi Chessa e Jessie Boswell, che in seguito fecero parte del gruppo dei "Sei pittori di Torino". Più tardi accolse anche il pittore piemontese Enrico Accatino e la pittrice modenese Ida Donati Formiggini, moglie del deputato socialista Pio Donati.

La Società di Belle Arti

Nel 1930 sposò Daphne Maugham, che frequentava la sua scuola dal 1926; fu pittore anche il figlio Francesco. Nel 1925 fu tra i fondatori della Società di Belle Arti Antonio Fontanesi, allo scopo di promuovere mostre di artisti italiani e stranieri dell'Ottocento e contemporanei. L'amicizia con l'industriale e collezionista Riccardo Gualino incoraggiò l'interesse di Casorati per il design di interni. Nel 1925 lavorò con Alberto Sartoris al teatrino di casa Gualino. Alla III Biennale di arti decorative organizzata dall'ISIA di Monza nel 1927 collaborò con Sartoris alla "via commerciale" per il padiglione piemontese; progettò inoltre l'atrio della Mostra dell'architettura alla Triennale di Milano del 1933.
L'arte astratta [modifica]

Nel 1935 lo studio di Casorati ed Enrico Paulucci ospitò la prima mostra collettiva d'arte astratta italiana, comprendente opere di Licini, Melotti e Fontana. Casorati vinse il premio per la pittura alla Biennale di Venezia nel 1938. Ricevette riconoscimenti ufficiali anche alle grandi esposizioni di Parigi, Pittsburgh e San Francisco alla fine degli anni trenta. Fu particolarmente attivo nella creazione di scene e costumi per ilTeatro dell'Opera di Roma, la Scala di Milano e il Maggio musicale fiorentino, attività che proseguì anche nel dopoguerra. La fama che allora lo circondava indusse il Verzocchi, a contattarlo alla fine degli anni quaranta, per contribuire alla sua collezione sul lavoro nella pittura contemporanea. Nel 1952 tenne una personale alla Biennale, e con Ottone Rosai, ricevette il premio speciale della Presidenza.

Franco Rasetti


Franco Rasetti (Castiglione del Lago, 10 agosto 1901 – Waremme, 5 dicembre 2001) è stato un fisico,paleontologo e botanico italiano.

Nipote del medico e naturalista Gino Galeotti e da questi stimolato, dimostra sin dall'infanzia uno spiccato interesse per le scienze naturali, dedicandosi alla collezione e l'illustrazione di piante e di piccoli animali e sviluppando un talento anche in campo artistico e figurativo, attività che riprenderà in età matura.

Rasetti frequenta la Scuola Normale Superiore di Pisa, dove conosce Enrico Fermi e si laurea nel 1922.

Nel 1930 ottiene la cattedra di Spettroscopia all'Università di Roma "La Sapienza", nel famoso Istituto di Via Panisperna diretto da Orso Mario Corbino, cattedra che terrà fino al 1938.

Durante un periodo trascorso in California, nel 1928-29, si dedica a esperimenti sullo spettro Ramandelle molecole di azoto che si riveleranno fondamentali per la comprensione di alcune proprietà dei nuclei. È tra i primi a studiare sperimentalmente le proprietà dei neutroni e svolge un ruolo cruciale nelle ricerche di Fermi sulla radioattività indotta mediante bombardamento di neutroni.

Nel 1939, la situazione interna italiana spinge Rasetti a lasciare l'Italia, come erano stati costretti a fare molti componenti del gruppo che negli anni trenta aveva reso celebre la fisica italiana (Fermi, Segre, Pontecorvo).
Insegna dal 1939 al 1947 in Canada, presso l'Università Laval, e poi fino al 1967 è titolare della cattedra di Fisica a Baltimora.

Profondamente contrario al coinvolgimento degli scienziati nelle ricerche belliche ("La guerra è una cosa idiota") rifiuta di far parte del Progetto Manhattan e, a partire dal1960, sposta il suo impegno verso quelli che erano sempre stati suoi grandi interessi al di fuori della fisica, gli studi naturalistici, diventando in breve uno dei massimi esperti mondiali di paleontologia del Cambriano.

Nonostante il notevole contributo apportato nelle due branche scientifiche, la sua scelta non collaborativa in campo bellico, condivisa solamente in seguito da altri fisici (Albert Einstein, Fermi ed Oppenheimer in testa), ha fatto sì che la sua figura rimanesse sepolta nell'oblio fino alla sua morte.

Nel 2007 si è costituita l'associazione "Franco Rasetti" con sede a Pozzuolo Umbro, frazione di Castiglione del Lago in cui nacque lo scienziato. In suo onore il Comune di Castiglione del Lago ha intitolato gli istituti scolastici di primo e secondo grado.

Il 10 ottobre 2007 la centrale elettrica Enel a ciclo combinato di Pietrafitta (Piegaro) in provincia di Perugia è stata intitolata a lui, così come un'aula nell'edificio Marconi del Dipartimento di fisica dell'Università di Roma "La Sapienza" e presto verrà istituito un museo dedicato alla sua opera.

Il giorno 11 ottobre 2008 presso i giardini pubblici di Pozzuolo Umbro è stato inaugurato il busto bronzeo in onore dello scienziato .

La sua salma riposa nella cappella di famiglia del cimitero di Pozzuolo Umbro.

Felice Balbo citato in Lessico famigliare



Felice Balbo (Torino, 1913 – 1964) è stato uno scrittore e filosofo italiano.

Felice Balbo è stato una delle voci più significative della cultura italiana della prima metà del Novecento. Fu un intellettuale militante cattolico e comunista, impegnato in un vasto progetto di rifondazione della politica nell'immediato secondo dopoguerra.

Nacque a Torino da Enrico Balbo di Vinadio e da Ada Tapparo, in via Bogino, nella casa che era stata del conte Cesare Balbo, ministro di casa Savoia nel XIX secolo. Dopo la laurea in Giurisprudenza, partecipò alla seconda guerra mondiale prima come sottufficiale degli Alpini, poi come membro della Resistenza.

Fu amico di Natalia Ginzburg, Giulio Einaudi, Massimo Mila e Cesare Pavese. Come consulente della casa torinese Einaudi curò due collane di filosofia. Fu nominato cattedratico di filosofia morale a Roma. Dal '51 si raccolse attorno a lui un piccolo gruppo di cattolici comunisti e di cristiano-sociali, molti ispirati dalle idee di Giuseppe Dossetti, per discutere sulla crisi dei valori nella società contemporanea e sui modi di superarla mediante l'impegno sociale [1].

Il suo impegno intellettuale trovò espressione inoltre con i contributi alle riviste Cultura e realtà diretta da Mario Motta e Terza generazionediretta da Ubaldo Scassellati prima e Gianni Baget Bozzo poi (i cui ideatori e collaboratori riconobbero l’ispirazione di Balbo anche se egli vi collaborò solo con un articolo) [2], e nell’attività politica: fu infatti vicino alle organizzazioni della sinistra di ispirazione cattolica e al Partito Comunista.

Egli comprese come il mutamento centrale della società sarebbe avvenuto nel rapporto tra lavoro umano e tecnica. Il 1 marzo 1956 fu assunto all' IRI presso il Servizio problemi del lavoro diretto da Giuseppe Glisenti, e si interessò di formazione del personale. Nel 1960 venne nominato direttore del Centro IRI per lo studio delle funzioni direttive aziendali

Giulio Einaudi citato in Lessico famigliare

Giulio Einaudi (Dogliani, 2 gennaio 1912 – Magliano Sabina, 5 aprile 1999) è stato un editore italiano, fondatore della casa editrice che porta il suo nome.

Nacque a Dogliani, in provincia di Cuneo, da Luigi e Ida Einaudi, il 2 gennaio 1912. Suo padre sarebbe diventato, trentasei anni dopo, presidente della repubblica italiana.

Frequentò il liceo-ginnasio Massimo d'Azeglio a Torino, dove fu allievo dell'antifascista Augusto Monti. Fece quindi parte di una "confraternita" di ex-allievi del liceo d'Azeglio, fra i cui membri figuravanoCesare Pavese, Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Fernanda Pivano, Vittorio Foa, Giulio Carlo Argan,Ludovico Geymonat, Franco Antonicelli e altri.

Il 15 novembre 1933, appena ventunenne, fondò la «Giulio Einaudi Editore», con sede a Torino al terzo piano di via Arcivescovado 7, nello stesso palazzo che era stato sede dell'«Ordine Nuovo» di Antonio Gramsci.

Dopo 64 anni di lavoro come editore, Giulio Einaudi andò in pensione il 4 settembre 1997 all'età di 85 anni. Morì il 5 aprile 1999 a ottantasette anni.

Fu tra gli intellettuali che firmarono l'appello pubblicato sul settimanale L'Espresso con cui si accusava il commissario Luigi Calabresi di essere un torturatore e di essere responsabile dell'omicidio dell'anarchico Giuseppe Pinelli; le forze dell'ordine sostennero che Giuseppe Pinelli si fosse suicidato lanciandosi dalla finestra del commissario Calabresi; questa versione risulta improbabile

Cesare Pavese citato in Lessico famigliare

Cesare Pavese nacque il 9 settembre 1908 nel cascinale di San Sebastiano, dove la famiglia trascorreva il periodo estivo, a Santo Stefano Belbo, un piccolo paese nelle Langhe, in provincia di Cuneo.
La fanciullezza
Il padre Eugenio era cancelliere presso il Palazzo di Giustizia di Torino dove risiedeva con la moglie Consolina Mesturini, figlia di commercianti benestanti di Ticineto, e la primogenita Maria.
Malgrado l'agiatezza economica la prima fanciullezza di Pavese non fu felice: una sorellina che era nata prima di lui era morta di difterite; e altri due fratelli, in seguito, morirono ancora molto piccoli. La madre, fragile di salute, aveva dovuto affidare ad una balia il piccolo Cesare e quando andò a riprenderlo, venne allevato da Vittoria Scaglione.
Suo padre morì il 2 gennaio 1914 di un cancro al cervello, quando Cesare aveva solamente sei anni. Come scrive Vincenzo Arnone [1] "c'erano già tutti i motivi - familiari e affettivi - per far crescere precocemente il piccolo Cesare che trattenne le lacrime, di cui sentiva istintivamente il pudore; c'erano già tutti i motivi per una preistoria umana e letteraria che avrebbe accompagnato e segnato la vita dello scrittore".
La madre si sostituì al marito nell'allevare i figli impartendo loro un'educazione molto rigorosa e contribuendo indirettamente ad accentuare il carattere già introverso e instabile di Cesare.
Pavese è forse uno dei più grandi scrittori italiani del '900. La sua prosa scarna e scorrevole, ma intensa e poetica, sorprende anche il lettore più esigente.
Gli studi
Nell'autunno dello stesso anno in cui morì il padre, la madre si ammalò di tifo e la famiglia fu costretta a rimanere a Santo Stefano dove Cesare frequentò la prima elementare; le altre quattro classi del ciclo le compì a Torino, presso l'istituto privato "Gambetta" di Via Garibaldi. Come scrive Armanda Guiducci [2] «S. Stefano fu il luogo della sua memoria e immaginazione; il luogo reale della sua vita, per quarant'anni, fu Torino». Lungo lo stradone che porta da Santo Stefano a Canelli, nella bottega del falegname Scaglione, Cesare conobbe Pinoli, il più piccolo dei figli che descriverà in alcune sue opere, soprattutto ne La luna e i falò dove comparirà col soprannome di Nuto e al quale rimarrà sempre legato.
Nel frattempo Consolina, non riuscendo più a sostenere la gestione dei mezzadri e soprattutto le spese, prese la decisione 1916 di vendere la cascina di San Sebastiano e di andare a vivere con i figli in una piccola villa che aveva comprato in collina a Reaglie, frazione del Comune di Torino.
Dopo la scuola elementare, a Torino Cesare frequentò le scuole medie presso l'Istituto Sociale diretto dai gesuiti e in seguito si iscrisse alla scuola pubblica "Cavour" dove frequentò i due anni ginnasiali con l'indirizzo moderno, che non prevedeva lo studio della lingua greca. In quegli anni iniziò ad appassionarsi alla letteratura e i suoi primi autori di riferimento furono Guido da Verona e Gabriele D'Annunzio. Con il compagno di studi Mario Sturani, col quale strinse una solida amicizia durata tutta la vita, cominciò a frequentare la Biblioteca Civica e a scrivere i primi versi, ampliando così i suoi interessi.
Pavese si iscrisse al liceo D'Azeglio nell'ottobre del 1923 e scoprì l'opera di Alfieri. Passò gli anni di liceo tra i primi amori adolescenziali e le amicizie con un gruppo di compagni, tra i quali Tullio Pinelli, amico al quale Pavese farà leggere per primo il dattiloscritto di "Paesi tuoi" e invierà una lettera di addio prima del suicidio. Cesare rimase a lungo a casa da scuola a causa di una pleurite che si era preso rimanendo a lungo sotto la pioggia per aspettare una cantante ballerina di varietà in un locale frequentato dagli studenti, della quale si era innamorato. Era il 1925 e frequentava allora la seconda liceo; l'episodio è citato da Francesco De Gregori nella canzone Alice (...e Cesare perduto nella pioggia sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina).
L'anno seguente fu scosso profondamente dalla tragica morte di un suo compagno di classe, Elio Baraldi, che si era tolto la vita con un colpo di rivoltella. Ebbe la tentazione di copiare quel gesto. Testimonianza di questo sofferto periodo sono le lettere e la poesia inviata il 9 gennaio 1927 [3] all'amico Sturani.
« Sono andato una sera di dicembre/ per una stradicciuola di campagna/ tutta deserta, col tumulto in cuore./ Avevo dietro me una rivoltella. »
Gobettiano fu il suo insegnante di latino e greco, l'antifascista Augusto Monti, che gli insegnò un metodo rigoroso di studio improntato all'estetica crociana frammista di alcune concezioni di De Sanctis.
Nel 1926, conseguita la maturità liceale, inviò alla rivista "Ricerca di poesia" alcune liriche, che furono però respinte. Si iscrisse intanto alla Facoltà di lettere dell'Università di Torino e continuò a scrivere e a studiare con grande fervore l'inglese, appassionandosi alla lettura di Walt Whitman, mentre le sue amicizie si allargarono a coloro che diventeranno, in seguito, intellettuali antifascisti di spicco: Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila e Giulio Einaudi.
L'interesse per la letteratura americana divenne sempre più rilevante e così iniziò ad accumulare materiale per la sua tesi di laurea, mentre proseguivano i timidi amori seguiti da una fase di angelicazione della donna. Intanto si appassionava sempre più alla sua città e così scriveva all'amico [4]:
« Ora io non so se sia l'influenza di Walt Whitman, ma darei 27 campagne per una città come Torino. La campagna sarà buona per un riposo momentaneo dello spirito, buona per il paesaggio, vederlo e scappar via rapido in un treno elettrico, ma la vita, la vita vera moderna, come la sogno e la temo io è una grande città, piena di frastuono, di fabbriche, di palazzi enormi, di folle e di belle donne (ma tanto non le so avvicinare) [5]. »


Durante gli anni dell'università l'interesse per la letteratura americana maturò in preparazione della tesi: leggendo Babbit di Sinclair Lewis Pavese volle capire a fondo lo slang. Iniziò così una fitta corrispondenza con un giovane italo-americano, conosciuto qualche anno prima a Torino, che lo aiutò ad approfondire l'americano a lui più contemporaneo.
Ad Antonio Chiuminatto scriverà
« ora io credo che lo slang non è una lingua distinta dall'inglese come per esempio il piemontese dal toscano... Lei dice: questa parola è slang e quest'altra è classica. Ma lo slang è forse altra cosa che il tronco delle nuove parole ed espressioni inglesi, continuamente formate dalla gente che vive, come lingue di tutti i tempi? Voglio dire, non c'è una linea che possa essere tracciata tra le parole inglesi e quelle dello slang come tra due lingue diverse... [6] »
Negli anni seguenti proseguì gli studi con passione, scrisse versi e lesse molto, soprattutto autori americani come Lewis, Hemingway, Lee Masters, Cummings, Lowell, Anderson e la Stein e iniziò a tradurre per l'editore Bemporad Our Mr. Wrenn di Lewis e scrisse per Arrigo Cajumi, membro del comitato direttivo della rivista "La Cultura", il suo primo saggio sull'autore di Babbitt iniziando così la serie detta "Americana".
Nel 1930 presentò la sua tesi di laurea "Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman" ma Federico Oliviero, il professore con il quale doveva discuterla, la rifiutò all'ultimo momento perché troppo improntata all'estetica crociana e quindi scandalosamente liberale per l'età fascista. Fortunatamente intervenne Leone Ginzburg, la tesi venne così accettata dal professore di Letteratura francese Ferdinando Neri e Pavese poté laurearsi con 108/110[7].
L'attività di traduttore e l'insegnamento
Nello stesso anno morì la madre e Pavese rimase ad abitare nella casa materna con la sorella Maria, dove visse fino al penultimo giorno della sua vita e iniziò, per guadagnare, l'attività di traduttore in modo sistematico alternandola all'insegnamento della lingua inglese.
Per un compenso di 1000 lire tradusse Moby Dick di Herman Melville, Riso nero di Anderson e scrisse un saggio sullo scrittore e, ancora per "La Cultura", un articolo sull'Antologia di Spoon River, uno su Melville e uno su O. Henry. Risale a questo stesso anno la prima poesia di Lavorare stanca. Ottenne anche alcune supplenze nelle scuole di Bra, Vercelli e Saluzzo e incominciò anche ad impartire lezioni private oltre ad insegnare nelle scuole serali.
Nel periodo che va dal settembre 1931 al febbraio 1932 Pavese compose un ciclo di racconti e poesie dal titolo Ciau Masino rimasto a lungo inedito che verrà pubblicato per la prima volta nel 1968 in edizione fuori commercio e contemporaneamente nel primo volume dei Racconti delle "opere di Cesare Pavese".
Nel 1932, per poter insegnare nelle scuole pubbliche si arrese, pur malvolentieri, alle insistenze della sorella e di suo marito e si iscrisse al partito nazionale fascista, cosa che rimprovererà più tardi alla sorella Maria in una lettera del 29 luglio 1935 scritta dal carcere di Regina Coeli: "A seguire i vostri consigli, e l'avvenire e la carriera e la pace ecc., ho fatto una prima cosa contro la mia coscienza".
Continuava intanto l'attività di traduttore, che terminò solamente nel 1947, e nel 1933 tradusse Il 42º parallelo di John Dos Passos e The Portrait of the Artist as a Young Man di James Joyce. Ebbe inizio in questo periodo un tormentato rapporto sentimentale con Tina Pizzardo, la "donna dalla voce rauca" alla quale dedicherà i versi di Incontro nella raccolta Lavorare stanca.
« ... L'ho incontrata una sera: una macchia più chiara/ sotto le stelle ambigue, nella foschia d'estate./ Era intorno il sentore di queste colline/ più profondo dell'ombra, e d'un tratto suonò/ come uscisse da queste colline, una voce più netta/ e aspra insieme, una voce di tempi perduti. [8] »
L'incarico all'Einaudi
Giulio Einaudi aveva intanto fondato la sua casa editrice e le due riviste, "La riforma sociale" di Luigi Einaudi e "La Cultura", che era stata fondata da Cesare De Lollis e in quel momento diretta da Cajumi, si fusero dando vita a una nuova "La Cultura" della quale doveva diventare direttore Leone Ginzburg. Ma molti partecipanti del "Movimento "Giustizia e Libertà", tra cui anche Ginzburg, all'inizio del 1934 vennero arrestati e la direzione della rivista passò a Sergio Solmi. Pavese intanto fece domanda alla casa editrice per poter sostituire Ginzburg e, dal maggio di quell'anno, visto che era tra quelli meno compromessi politicamente, incominciò la collaborazione con l'Einaudi dirigendo per un anno "La Cultura" e curando la sezione di etnologia.
Sempre nel 1934, grazie alla raccomandazione di Ginzburg, riuscì ad inviare ad Alberto Carocci, direttore a Firenze della rivista Solaria, le poesie di Lavorare stanca che vennero lette da Elio Vittorini con parere positivo tanto che Carocci ne decise la pubblicazione.
L'arresto e la condanna
Nel 1935 Pavese, intenzionato a proseguire nell'insegnamento, si dimise dall'incarico all'Einaudi e incominciò a prepararsi per affrontare il concorso di latino e greco ma, il 15 maggio, in seguito ad altri arresti di intellettuali aderenti a "Giustizia e Libertà", venne fatta una perquisizione nella casa di Pavese, sospettato di frequentare il gruppo di intellettuali a contatto con Ginzburg, e venne trovata, tra le sue carte, una lettera di Altiero Spinelli detenuto per motivi politici nel carcere romano. Accusato di antifascismo, Pavese venne arrestato e incarcerato dapprima alle Nuove di Torino, poi a Regina Coeli a Roma e, in seguito al processo, venne condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro. Pavese, in realtà, era innocente per il fatto che la lettera trovata era rivolta a Tina, la "donna dalla voce rauca", della quale era stato precedentemente innamorato. Tina era politicamente impegnata e iscritta al partito comunista clandestino e continuava ad avere contatti epistolari con un ex - fidanzato, appunto lo Spinelli e le lettere pervenivano a casa di Pavese che, per accontentarla e senza valutare le conseguenze, le aveva permesso di utilizzare il suo indirizzo.
Il confino a Brancaleone
Il 4 agosto 1935 giunse in Calabria a Brancaleone e scrisse ad Augusto Monti [9] "Qui i paesani mi hanno accolto umanamente, spiegandomi che, del resto, si tratta di una loro tradizione e che fanno così con tutti. Il giorno lo passo "dando volta", leggicchio, ristudio per la terza volta il greco, fumo la pipa, faccio venir notte; ogni volta indignandomi che, con tante invenzioni solenni, il genio italico non abbia ancora escogitato una droga che propini il letargo a volontà, nel mio caso per tre anni. Per tre anni! Studiare è una parola; non si può niente che valga in questa incertezza di vita, se non assaporare in tutte le sue qualità e quantità più luride la noia, il tedio, la seccaggine, la sgonfia, lo spleen e il mal di pancia. Esercito il più squallido dei passatempi. Acchiappo le mosche, traduco dal greco, mi astengo dal guardare il mare, giro i campi, fumo, tengo lo zibaldone, rileggo la corrispondenza dalla patria, serbo un'inutile castità.
Nell'ottobre di quell'anno aveva iniziato a tenere quello che nella lettera al Lajolo definisce lo "zibaldone", cioè un diario che diventerà in seguito Il mestiere di vivere e aveva fatto domanda di grazia, con la quale ottenne il condono di due anni.
Per approfondire, vedi la voce Lavorare stanca.
Nel 1936, durante il suo confino, venne pubblicata la prima edizione della raccolta poetica Lavorare stanca che, malgrado la forma fortemente innovativa, passò quasi inosservata.
Il ritorno a Torino
Verso la fine del '36, terminato l'anno di confino, Pavese fece ritorno a Torino e dovette affrontare la delusione di sapere che Tina si era sposata con un altro e che le sue poesie erano state ignorate. Per guadagnarsi da vivere riprese il lavoro di traduttore e nel 1937 tradusse Un mucchio di quattrini (The Big Money) di Dos Passos per Mondadori e Uomini e topi di Steinbeck per Bompiani. Dal 1º maggio accettò di collaborare, con un lavoro stabile e per lo stipendio di mille lire al mese, con la Einaudi sia per la collana "Narratori stranieri tradotti" che per la "Biblioteca di cultura storica" traducendo Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders di Daniel Defoe e l'anno dopo La storia e le personali esperienze di David Copperfield di Charles Dickens oltre l'Autobiografia di Alice Toklas della Stein.
Il passaggio alla prosa
Per approfondire, vedi le voci Notte di festa, Il carcere e Paesi tuoi.
Nel frattempo incominciò a scrivere i racconti che verranno pubblicati postumi, dapprima nella raccolta "Notte di festa" e in seguito nel volume de "I racconti" e fra il 27 novembre del 1936 e il 16 aprile del 1939 completò la stesura del suo primo romanzo breve tratto dall'esperienza del confino intitolato "Il carcere" (il primo titolo era stato "Memorie di due stagioni") che verrà pubblicato dieci anni dopo e dal 3 giugno al 16 agosto scrisse Paesi tuoi che verrà pubblicato nel 1941 e sarà la prima opera di narrativa dello scrittore data alle stampe.
Si andava intanto intensificando, dopo il ritorno dal confino di Leone Ginzburg da Pizzoli, negli Abruzzi, l'attività del gruppo clandestino di "Giustizia e Libertà" e quella dei comunisti con a capo Ludovico Geymonat e Pavese, che era chiaramente antifascista, venne coinvolto e, al di qua di una precisa e dichiarata definizione politica, iniziò ad assistere con crescente interesse alle frequenti discussioni che avvenivano a casa degli amici. Conobbe in questo periodo Giaime Pintor che collaborava ad alcune riviste letterarie ed era inserito alla Einaudi come traduttore dal tedesco e come consulente e nacque tra loro una salda amicizia.
Il periodo della guerra
Nel 1940 l'Italia era intanto entrata in guerra e Pavese era coinvolto in una nuova avventura sentimentale con una giovane universitaria che era stata sua allieva al liceo D'Azeglio e che gli aveva presentato Norberto Bobbio. La ragazza, giovane e ricca di interessi culturali, si chiamava Fernanda Pivano e colpì lo scrittore a tal punto che il 26 luglio le propose il matrimonio; malgrado il rifiuto della giovane, l'amicizia continuò. Alla Pivano Pavese dedicò alcune poesie, tra le quali "Mattino", "Estate" e "Notturno" che inserì nella nuova edizione di Lavorare stanca. Lajolo scrive che " Per cinque anni Fernanda fu la sua confidente, ed è in lei che Pavese tornò a sperare per avere una casa ed un amore. Ma anche quella esperienza - così diversa - si concluse per lui con un fallimento. Sul frontespizio di Feria d'agosto sono segnate due date: 26 luglio '40, 10 luglio '45, che ricordano le due domande di matrimonio fatte a Fernanda e le due croci rappresentano il significato delle risposte" [10].
Per approfondire, vedi le voci La bella estate e La spiaggia.
In quell'anno Pavese scrisse La bella estate (il primo titolo sarà "La tenda"), che verrà pubblicato nel 1949 nel volume dal titolo omonimo che comprende Il diavolo sulle colline e Tra donne sole; tra il '40 e il '41 scrisse La spiaggia, che vedrà una prima pubblicazione nel 1942 su "Lettere d'oggi" di Giambattista Vicari.
Nel 1941, con la pubblicazione di Paesi tuoi, e quindi l'esordio narrativo di Pavese, la critica sembrò accorgersi finalmente dell'autore. Intanto, nel 1942, Pavese venne regolarmente assunto dalla Einaudi con mansioni di impiegato di prima categoria e con il doppio dello stipendio sulla base del contratto nazionale collettivo di lavoro dell'industria. Nel 1943 Pavese venne trasferito per motivi editoriali a Roma dove gli giunse la cartolina di precetto ma, a causa della forma d'asma di origine nervosa di cui soffriva, dopo sei mesi di convalescenza all'Ospedale militare di Rivoli venne dispensato dalla leva militare e ritornò a Torino che nel frattempo aveva subito numerosi bombardamenti e che trovò deserta dai numerosi amici, mentre sulle montagne si stavano organizzando le prime bande partigiane.
Nel 1943, dopo l'8 settembre, Torino venne occupata dai tedeschi e anche la casa editrice venne occupata da un commissario della Repubblica sociale italiana. Pavese, a differenza di molti suoi amici che si preparavano alla lotta clandestina, si rifugiò a Serralunga di Crea, un piccolo paese del Monferrato, dove la sorella Maria era sfollata. A dicembre, per sfuggire ad una retata da parte dei repubblichini e dei tedeschi, chiese ospitalità presso il Collegio Convitto dei padri Somaschi dove, per sdebitarsi, dava ripetizioni agli allievi. Leggeva e scriveva apparentemente sereno mentre intorno a lui, sulle colline, altri giovani morivano per difendere la loro terra.
Il 1º marzo, mentre si trovava ancora a Serralunga, gli giunse la notizia della tragica morte di Leone Ginzburg avvenuta sotto le torture nel carcere di Regina Coeli. Il 3 marzo scriverà: "L'ho saputo il 1° marzo. Esistono gli altri per noi? Vorrei che non fosse vero per non star male. Vivo come in una nebbia, pensandoci sempre ma vagamente. Finisce che si prende l'abitudine a questo stato, in cui si rimanda sempre il dolore vero a domani, e così si dimentica e non si è sofferto" [11].
Gli anni del dopoguerra (1945 - 1950)
L'iscrizione al Partito comunista e l'attività a "L'Unità"
Ritornato a Torino dopo la liberazione, venne subito a sapere che tanti amici erano morti: Giaime Pintor era stato dilaniato da una mina sul fronte dell'avanzata americana; Luigi Capriolo era stato impiccato a Torino dai fascisti e Gaspare Pajetta, un suo ex allievo di soli diciotto anni, era morto combattendo nella Val di Sesia. Dapprima, colpito indubbiamente da un certo rimorso, che ben espresse in seguito nelle poesie del poemetto "La terra e la morte" e in tante pagine dei suoi romanzi, egli cercò di isolarsi dagli amici rimasti ma poco dopo decise di iscriversi al Partito comunista iniziando a collaborare al quotidiano L'Unità; ne darà notizia da Roma, dove era stato inviato alla fine di luglio per riorganizzare la filiale romana della Einaudi, il 10 novembre all'amico Mila: "Io ho finalmente regolato la mia posizione iscrivendomi al PCI".
Come scrive l'amico Lajolo [12] "La sua iscrizione al partito comunista oltre ad un fatto di coscienza corrispose certamente anche all'esigenza che sentiva di rendersi degno in quel modo dell'eroismo di Gaspare e degli altri suoi amici che erano caduti. Come un cercare di tacitare i rimorsi e soprattutto di impegnarsi almeno ora in un lavoro che ne riscattasse la precedente assenza e lo ponesse quotidianamente a contatto con la gente... Tentava con quel legame anche disciplinare, di rompere l'isolamento, di collegarsi, di camminare assieme agli altri. Era l'ultima risorsa alla quale si aggrappava per imparare il mestiere di vivere".
Nei mesi trascorsi presso la redazione de L'Unità conobbe Italo Calvino, che lo seguì alla Einaudi e ne divenne da quel momento uno dei più stimati collaboratori e Silvio Micheli che era giunto a Torino nel giugno del 1945 per parlare con Pavese della pubblicazione del suo romanzo "Pane duro".
Alla sede romana della Einaudi
Verso la fine del 1945, Pavese dovette lasciare Torino per recarsi a Roma dove ebbe l'incarico di potenziare la sede romana della Einaudi. Il periodo romano, che durò fino alla seconda metà del 1946, fu considerato dallo scrittore tempo d'esilio perché staccarsi dall'ambiente torinese, dagli amici e soprattutto dalla nuova attività politica, lo fece ricadere nella malinconia.
Nella segreteria della sede romana lavorava una giovane donna, Bianca Garufi, e per lei Pavese provò una nuova passione, più impegnativa dell'idillio con la Pivano, che egli visse intensamente e che lo fece soffrire.
Scriverà nel suo diario, il 1º gennaio del 1946, come consuntivo dell'anno trascorso: "Anche questa è finita. Le colline, Torino, Roma. Bruciato quattro donne, stampato un libro, scritte poesie belle, scoperta una nuova forma che sintetizza molti filoni (il dialogo di Circe). Sei felice? Sì, sei felice. Hai la forza, hai il genio, hai da fare. Sei solo. Hai due volte sfiorato il suicidio quest'anno. Tutti ti ammirano, ti complimentano, ti ballano intorno. Ebbene? Non hai mai combattuto, ricordalo. Non combatterai mai. Conti qualcosa per qualcuno? [13].
Per approfondire, vedi la voce Fuoco grande.
Nel febbraio del '46 iniziò a scrivere in collaborazione con la Garufi un romanzo, a capitoli alterni, che rimarrà incompiuto e che verrà pubblicato postumo nel 1959 con il titolo, dato dall'editore, Fuoco grande.
A Torino: la Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici
Per approfondire, vedi la voce Dialoghi con Leucò.
Ritornato a Torino si mise a lavorare su quei temi delineatisi nella mente quando era a Serralunga. Incominciò a comporre i Dialoghi con Leucò e nell'autunno, mentre stava terminando l'opera, scrisse i primi capitoli de Il compagno con il quale volle testimoniare l'impegno per una precisa scelta politica.
Terminati i Dialoghi, in attesa della pubblicazione del libro che avvenne a fine novembre nella collana "Saggi", tradusse "Capitano Smith" di Robert Henriques.
Il 1947 fu un anno intenso per l'attività editoriale e Pavese si interessò particolarmente della "Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici" da lui ideata e che fece conoscere al mondo culturale italiano le opere di autori come Lévy-Bruhl, Malinowski, Propp, Frobenius, Jung, che avrebbero dato l'avvio alle nuove teorie antropologiche. Oltre a questa Collezione, Pavese inaugurò la nuova collana di narrativa dei "Coralli" che era nata in quello stesso anno in sostituzione dei "Narratori contemporanei".
La febbrile attività narrativa
Per approfondire, vedi le voci Il compagno e La casa in collina.
Tra il settembre del 1947 e il febbraio del 1948, contemporaneamente a Il compagno , scrisse La casa in collina che uscì l'anno successivo insieme a Il carcere nel volume Prima che il gallo canti il cui titolo, ripreso dalla risposta di Cristo a Pietro, si riferisce, con tono palesemente autobiografico ai suoi tradimenti politici. Seguirà, tra il giugno e l'ottobre del '48 Il diavolo sulle colline.
Nell'estate del '48 gli era stato intanto assegnato per "Il compagno" il Premio Salento ma Pavese aveva scritto all'amico Carlo Muscetta di dimissionarlo da qualsiasi premio letterario, presente o futuro.
Alla fine dell'anno uscì Prima che il gallo canti che venne subito elogiato dai critici Emilio Cecchi e Giuseppe De Robertis. Dal 27 marzo al 26 maggio del 1949 scrisse Tra donne sole e, al termine del romanzo, andò a trascorrere una settimana a Santo Stefano Belbo e, in compagnia dell'amico Pinolo Scaglione, a suo agio tra quelle campagne, iniziò ad elaborare quella che sarebbe diventata La luna e i falò, l'ultima sua opera pubblicata in vita.
Per approfondire, vedi le voci La bella estate, Il diavolo sulle colline e Tra donne sole.
Il 24 novembre 1949 verrà pubblicato il trittico La bella estate che comprendeva i già citati tre romanzi brevi composti in periodi diversi: l'eponimo del 1940, Il diavolo sulle colline del 1948 e Tra donne sole del 1949.
Per approfondire, vedi la voce La luna e i falò.
Sempre nel 1949, scritto nel giro di pochi mesi e pubblicato nella primavera del 1950, scrisse La luna e i falò che sarà l'opera di narrativa conclusiva della sua carriera letteraria.
A Roma: l'ultimo amore
Dopo essere stato per un brevissimo tempo a Milano, farà un viaggio a Roma e vi rimarrà dal 30 dicembre del '49 al 6 gennaio del 1950 ma rimarrà deluso e il 1° gennaio scriverà sul suo diario [14] "Roma è un crocchio di giovanotti che attendono per farsi lustrare le scarpe. Passeggiata mattutina. Bel sole. Ma dove sono le impressioni del '45 - '46? Ritrovato a fatica gli spunti, ma niente di nuovo. Roma tace. Né le pietre né le piante dicono più gran che. Quell'inverno stupendo; sotto il sereno frizzante, le bacche di Leucò. Solita storia. Anche il dolore, il suicidio, facevano vita, stupore, tensione. In fondo ai grandi periodi hai sempre sentito tentazioni suicide. Ti eri abbandonato. Ti eri spogliato dell'armatura. Eri ragazzo. L'idea del suicidio era una protesta di vita. Che morte non voler più morire".
In questo stato d'animo conosce, in casa di amici, Constance Dowling giunta a Roma con la sorella Doris che aveva recitato in Riso amaro con Vittorio Gassman e Raf Vallone e, colpito dalla sua bellezza se ne innamora.
Ritornando a Torino cominciò a pensare che, ancora una volta, si era lasciato sfuggire l'occasione e quando Constance si recherà a Torino per riposare, si rivedono e la donna, che aveva invece colto l'occasione per "flirtare" con un famoso letterato, lo convinse ad andare con lei a Cervinia e Pavese si illuse un'altra volta. Ma Constance ripartirà presto per l'America per tentare fortuna a Hollywood lasciando lo scrittore amareggiato e infelice. A Constance, come per un addio dedica il romanzo "La luna e i falò". "For C. - Ripeness is all".
Il Premio Strega
Nella primavera - estate del 1950 uscirà la rivista "Cultura e realtà" e Pavese, che fa parte della redazione, apre il primo numero della rivista con un suo articolo sul mito nel quale afferma la sua fede poetica di carattere vichiano che non venne apprezzata dagli ambienti degli intellettuali comunisti.
Cesare viene attaccato e lui, sempre più amareggiato annoterà nel suo diario il 15 febbraio [15] "Pavese non è un buon compagno... Discorsi d'intrighi dappertutto. Losche mene, che sarebbero poi i discorsi di quelli che ti stanno più a cuore", e ancora il 20 maggio [16] "Mi sono impegnato nella responsabilità politica che mi schiaccia".
Pavese era terribilmente depresso e non servì a riscuoterlo nemmeno il Premio Strega che ricevette nel giugno del 1950 per La bella estate.

La morte
Per approfondire, vedi la voce Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Per approfondire, vedi la voce Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950.
La delusione amorosa per la fine del rapporto sentimentale con l'attrice americana Constance Dowling - cui dedicò gli ultimi versi di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi - ed il disagio esistenziale, lo indussero così al suicidio il 27 agosto del 1950, in una camera dell'albergo Roma, a Torino, che aveva occupato il 26 agosto. Venne trovato morto disteso sul letto dopo aver ingerito sedici bustine di sonnifero. Il 17 agosto scrive sul diario che verrà pubblicato postumo nel 1952 con il titolo Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950: "Questo il consuntivo dell'anno non finito, che non finirò." ed il 18 agosto chiude il diario scrivendo:
« Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più. [17] »
Sulla prima pagina dei "Dialoghi con Leucò" che si trovava sul tavolino aveva scritto:
« Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi. [18] »
Il suo amico scrittore Davide Lajolo bene descrisse in un libro intitolato non casualmente Il vizio assurdo il malessere esistenziale che sempre aveva avvolto la vita dell'intellettuale piemontese.

Opera e poetica

Per approfondire, vedi la voce Opere e poetica (Cesare Pavese).
Importante fu l'opera di Pavese scrittore di romanzi, poesie e racconti, ma anche quella di traduttore e critico: oltre all'Antologia americana curata da Elio Vittorini, essa comprende la traduzione di classici della letteratura da Moby Dick di Melville, nel 1932, ad opere di Dos Passos, Faulkner, Defoe, Joyce e Dickens.
Per approfondire, vedi la voce La letteratura americana e altri saggi.
Nel 1951 uscì postumo, edito da Einaudi e con la prefazione di Italo Calvino il volume La letteratura americana e altri saggi con tutti i saggi e gli articoli che Pavese scrisse tra il 1930 e il 1950.
La sua attività di critico in particolare contribuì a creare, verso la metà degli anni trenta, il sorgere di un certo mito dell'America. Lavorando nell'editoria (per la Einaudi) Pavese propose alla cultura italiana scritti su temi differenti, e prima d'allora raramente affrontati, come l'idealismo ed il marxismo, inclusi quelli religiosi, etnologici e psicologici.


Emilio Lussu citato in Lessico famigliare

Emilio Lussu (Armungia, 4 dicembre 1890 – Roma, 5 marzo 1975) è stato un politico,scrittore e militare italiano.

La famiglia di Emilio apparteneva al ceto benestante di Armungia (piccolo centro situato nel Gerrei e confinante con l'estrema punta meridionale della Barbagia), ma grazie all'esempio paterno egli visse in un clima sostanzialmente egualitario. Il paese di Armungia è stato spesso presentato da Lussu sotto un'aura mitologica, come luogo di formazione dei suoi valori più profondi (rispetto dell'uomo e del lavoro, partecipazione democratica) e in definitiva della sua identità sarda (la lingua natale, le tradizioni, l'orgoglio delle radici e la loro difesa contro la sopraffazione coloniale). Questo patrimonio iniziale si rafforzò in una prospettiva più consapevolmente politica nel rapporto con le correnti repubblicane e socialiste del Novecento a Cagliari, Roma e Parigi[1] [2]. Ad Armungia, il 7 agosto 2009, è stato inaugurato il museo Emilio e Joyce Lussu, dove vi sono molte foto, scritti e video.

A Cagliari si laureò in giurisprudenza nel 1914. Nel periodo universitario Lussu si schierò con gli interventisti democratici (repubblicani, salveminiani), perché l'Italia entrasse nellaPrima guerra mondiale contro gli Imperi centrali (Impero tedesco e Austria). Vi prese parte direttamente, come ufficiale di complemento e si congedò con il grado di capitano nella 151°fanteria Brigata Sassari, costituita su base regionale per la maggior parte da contadini e pastori sardi.

Nel 1916 la Brigata fu inviata sulle montagne intorno ad Asiago per creare un fronte che resistesse a qualunque costo alla discesa degli austriaci verso Vicenza e Verona; le vittorie dei sardi nei primi scontri furono seguite da un potente contrattacco che li vide impegnati sino al luglio dell'anno successivo, sul Monte Zebio e nei pressi di Monte Castelgomberto, in una sfiancante e sanguinosa lotta che, più che per avanzare, si conduceva per la tenuta delle posizioni. Era del resto questa la vera guerra di trincea, ed era la guerra di una truppa gestita dai suoi distanti generali con modi ed intenzioni che oggi apparirebbero intollerabili.

Questa esperienza ispirò a Lussu il capolavoro per il quale è principalmente noto, Un anno sull'Altipiano, scritto nel 1937 (di questo romanzo è stata fatta un riduzione cinematografica ad opera di Francesco Rosi dal titolo Uomini contro del 1970); si tratta di un'importantissima memoria, di un prezioso documento sulla vita dei soldati italiani in trincea che, per la prima volta nella letteratura italiana, descrive l'irrazionalità e il non-senso della guerra, della gerarchia e dell'esasperata disciplina militare in uso al tempo.

Dotato di un algido razionalismo, l'autore poté lucidamente dimostrare nel suo scritto la profonda differenza fra ciò che davvero accadeva ai soldati e quanto invece ne conosceva l'opinione pubblica; dipinse in tutti i suoi drammatici aspetti quanto fosse inutilmente crudele la disciplina militare applicata a poveri contadini analfabeti e quanto infondato fosse il rispetto dovuto ai generali ed agli ufficiali superiori, i quali avevano ed applicavano eccesso di arbitrio. In un brano di notevole efficacia, descrisse il silenzioso terrore dei momenti che precedevano l'attacco, il drammatico abbandono della "sicura" trincea per proiettarsi verso un ignoto, rischioso, indefinito mondo esterno: «... tutte le mitragliatrici ci stanno aspettando».

Si è detto che l'opera stia costantemente guadagnando modernità, se non proprio attualità, e che il suo contenuto stia con pari costanza guadagnando comprensibilità e condivisibilità man mano che la comune considerazione della guerra evolve nel senso di generale riprovazione. Effettivamente, molti dei concetti espressi nel libro hanno trovato postumo suffragio in noti movimenti culturali, ideologie politiche e sentimenti popolari di epoche successive, specialmente dopo la Seconda guerra mondiale ed altri conflitti minori.

Al libro sono stati attribuiti molti significati politici, talora per meri fini strumentali, ma essenzialmente è scritto in forma di reportage, a mezza via fra il resoconto giornalistico ed un racconto in termini familiari; le riflessioni contenute o suggerite sono piuttosto ad un livello morale o filosofico.

Essendo stato prima della stesura dell'opera un interventista ed un rivoluzionario (fece parte del movimento clandestino antifascista Giustizia e libertà), Lussu sembrò in qualche modo compiere un'inversione di marcia rispetto ai convincimenti precedenti, descrivendo con sobrietà che cosa davvero sia, nei suoi momenti più crudeli, quella guerra dapprima cercata come conflitto dell'istituzione e poi come conflitto contro l'istituzione.

Non rimase fuori dalla narrazione il tema sociale riguardante il modo in cui le classi inferiori venivano "usate" a fini bellici. La partecipazione delle masse contadine sarde alla Grande Guerra fu in effetti un momento di passaggio fondamentale che pose in termini completamente nuovi la "questione sarda". Alla luce delle lotte condotte dal movimento socialista dell'epoca (la rivoluzione russa fu essenzialmente una rivoluzione contadina) essa divenne infatti il leitmotiv di un imponente moto di popolo che, nell'immediato dopoguerra, coinvolse ampi strati delle classi lavoratrici sarde. Fra i suoi organizzatori, Lussu fu uno dei più attivi ed amati.

Alla fine della guerra (1919), insieme a Camillo Bellieni ed altri reduci, Lussu fondò il Partito Sardo d'Azione, da subito connotato come movimento autonomista e federalista, che pose al centro della sua azione politica la "questione nazionale sarda". Fu un movimento di massa che coinvolse i contadini e pastori sardi in nome della distribuzione delle terre e dei pascoli, contro i ricchi possidenti agrari e i partiti politici da loro sostenuti e prese linfa soprattutto dall'Associazione Nazionale Reduci e Combattenti di cui praticamente tutti gli aderenti sardi vennero iscritti d'ufficio al nuovo partito. Il partito fu munito di personalità giuridica e venne formalmente costituito nel 1921, con l'obiettivo non certo accessorio di contrastare la crescita del movimento dei Fasci. Inizialmente Lussu fu incaricato di trattare una eventuale fusione tra il Partito Sardo d'Azione e il Partito Fascista, ma nel corso delle trattative, per motivi che la storiografia non è riuscita a chiarire con esattezza, si ritirò dall'incarico (il prefetto fascista Asclepia Gandolfo scrisse a Mussolini che Lussu si era ritirato poiché non gli era stata garantita una funzione di rilievo nel fascismo sardo). La fusione tra Partito Sardo d'Azione e Partito Fascista fu portata avanti da altri esponenti come Paolo Pili, ed ebbe parzialmente successo, ma non ebbe l'appoggio di altri intellettuali e dirigenti del partito come Camillo Bellieni, Francesco Fancello e lo stesso Lussu. Nello stesso anno Lussu fu eletto alla Camera dei deputati e fu in seguito tra i deputati della "secessione aventiniana", famosa forma di protesta dopo il delitto Matteotti.

Nonostante una prima sottovalutazione del fenomeno fascista, la sua posizione fu in seguito tra le più radicali e nette.
« In quest'ultimo caso, fu consapevole che la vittoria sarebbe stata raggiunta (come in effetti fu) soltanto militarmente: da qui l'organizzazione degli Arditi del popolo contro gli squadristi fascisti; la progettazione di un'insurrezione antifascista e repubblicana in Sardegna; l'intervento nellaguerra di Spagna con le Brigate internazionali e la partecipazione alla lotta di liberazione nel Partito d'azione.[4][5] »


Fu più volte personalmente e fisicamente colpito (e ferito) da aggressori rimasti ignoti. Nel 1926, durante uno di questi attacchi (per combinazione subíto lo stesso giorno dell'attentato a Mussolini, a Bologna[6]), Lussu sparò ad uno degli aggressori che cercavano di introdursi nella sua casa di Cagliari, lo squadrista morì in seguito alla ferita, e Lussu venne perciò arrestato e processato. Gli fu riconosciuta la innegabile circostanza di legittima difesa, ma poco tempo dopo fu condannato a 5 anni di confino a Lipari dal Tribunale Speciale.

Dal confino Lussu evase nel 1929 insieme a Carlo Rosselli e Francesco Fausto Nitti, che narrerà l'avventurosa evasione nel libro Le nostre prigioni e la nostra evasione pubblicato in edizione italiana solo nel 1946 (del 1929 è la prima edizione in inglese col titolo di Escape) per raggiungere Parigi, dove scrisse un libro sugli avvenimenti di quel decennio (La catena). Insieme a Gaetano Salvemini e allo stesso Rosselli diede vita al movimento antifascista "Giustizia e Libertà", ideologicamente orientato in senso socialista liberale, che proponeva metodi rivoluzionari per abbattere il regime e sradicare dalla società italiana le sue cause (culturali, economiche, politiche); compì le sue attività clandestine con il nome in codice di "Mister Mills". Nel 1936 fu in Svizzera per curare la tubercolosi contratta in prigionia, e qui scrisse un libro di stile manualistico sulla teoria dell'insurrezione. Sempre a Parigi, pubblicò "Marcia su Roma e dintorni", che racconta l'affermarsi del fascismo in Sardegna, dal 1919 al 1929, con le sue violenze e i suoi piccoli uomini di regime. Prese parte alla guerra civile spagnola nel fronte antifranchista (anche se soltanto brevemente, a causa delle sue cattive condizioni di salute). Il suo ritorno in Italia (e in Sardegna) avvenne solo dopo l'armistizio del 1943, in un paese ben presto occupato dai nazisti. Dopo la fusione di Giustizia e Libertà e Partito d'Azione, diventato uno dei leader della nuova formazione politica, partecipò alla Resistenza a Roma, mantenendo comunque stretti rapporti con il Partito Sardo d'Azione. Come esponente di punta dell'ala socialista del partito guidò lo scontro contro la corrente liberaldemocratica di Ugo La Malfa[7], un conflitto che fu la causa scatenante della scomparsa del Partito d'Azione. Il tormentato rapporto di Lussu con la dirigenza moderata e conservatrice del partito sardo post-bellico sfociò nel '48 in una rottura: la corrente lussiana fondò un nuovo partito (il Partito Sardo d'Azione Socialista), che confluì di lì a poco nel PSI.

Nel 1945 fu ministro all'assistenza postbellica nel primo governo di unità nazionale dell'Italia libera, quello presieduto per breve tempo dall'azionista Parri e nel successivo governo del democristiano De Gasperi, come ministro senza portafoglio per i rapporti con la Consulta.

Nella seduta alla Camera del 13 dicembre 1947, i deputati Alberto Cianca e Lussu avevano mosso delle accuse nei confronti di Francesco Chieffi: il primo l'aveva nominato "collaboratore dei tedeschi", ed il secondo aveva dichiarato che Chieffi era stato "fornitore di donne ai tedeschi".
Il 22 dicembre 1947 un'apposita Commissione di inchiesta parlamentare, presieduta da Luigi Gasparotto, concluse che le accuse erano senza fondamento sotto ogni profilo[8].

Nel 1964 partecipò alla scissione del PSI da cui nacque il PSIUP (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) contro la politica di intese con la Democrazia Cristiana avviata da Nenni. Tuttavia guardò con crescente distacco a questa nuova esperienza mano a mano che il PSIUP entrò sempre più nell'orbita del PCI.

La sua vecchiaia operosa lo vide scrivere importanti pagine di storia (fra le quali quelle dedicate alla vicenda del Partito d'Azione), e fu sempre in contatto con la sua terra, dei cui problemi discusse fino all'ultimo. Morì a Roma nel 1975.
La complessità dell'uomo [modifica]

Il cambiamento di posizione concettuale rispetto alla guerra fu oggetto di intensa discussione nel mondo politico, più che in quello letterario: prima giovanissimo interventista, poi esponente di punta delle trattative che dovevano condurre il Partito sardo d'Azione alla fusione con il Partito Fascista, poi ancora, nell'esilio imposto dai fascisti, autore di un manuale sull'insurrezione contro la tirannide (Teoria dell'insurrezione), e poco tempo appresso autore di un testo che sarebbe difficile non definire come pacifista; poi ancora volontario in Spagna, Lussu consegnava ai critici un'impostazione ideologica ed etica originale, anche se non priva di aspetti problematici. Su di essi gli avversari politici (dai fascisti agli indipendentisti sardi reazionari; dai clericali agli stalinisti) tentarono di speculare per mettere in ombra il suo percorso politico e umano, improntato ad uno schietto ed intransigente socialismo libertario, sardista e federalista.

Fu interventista democratico (e non nazionalista, come molti di coloro che poi confluirono nel movimento fascista nel primo dopoguerra) all'età di 23-24 anni: l'esperienza drammatica della guerra gli fece capire l'assurdità di questa grande carneficina e ne trasse una serie di insegnamenti che poi ispirarono molta parte delle sue successive scelte politiche. Lottò infatti al fianco dei contadini e pastori sardi per il loro riscatto e si oppose alle dittature fasciste e naziste in nome dei principi di giustizia sociale, libertà, autonomia. In quest'ultimo caso, fu consapevole che la vittoria sarebbe stata raggiunta (come in effetti fu) soltanto militarmente: da qui l'organizzazione armata delle "camicie grigie sardiste" contro gli squadristi fascisti; la progettazione di un'insurrezione antifascista e repubblicana in Sardegna; l'intervento nella guerra di Spagna con le Brigate internazionali e la partecipazione alla lotta di liberazione nelle file del Partito d'Azione.

Affermare, come alcuni fanno ancora oggi, "il repentino abbandono della "causa sarda", unito alla singolare "rinnegazione della sua terra" nel caso di Lussu è un falso storico. Non solo non rinnegò mai le sue radici sarde ma disprezzò sempre chi lo fece; Lussu tuttavia non fu mai un indipendentista e la sua azione politica non può essere mai accostata a questa opzione; restò in contatto sia personale che epistolare con numerosi esponenti del mondo politico sardo (compresi quei sardisti dai quali si era allontanato al momento della scissione); visitò, anche in qualità di uomo politico, numerose volte l'isola, ed il paese natale di Armungia; in parlamento difese le pur deboli prerogative concesse dallo statuto autonomista sardo (consapevole che si trattava di ben poca cosa rispetto all'autogoverno derivante dalla trasformazione federalista dello Stato, obiettivo per cui lottò una vita) e richiamò l'attenzione del governo e delle altre forze politiche sulla necessità di migliorare le condizioni economiche e sociali del popolo sardo e, in particolare, delle sue classi lavoratrici e proletarie (si vedano i due volumi dei suoi Discorsi parlamentari e la raccolta postuma di interventi Essere a sinistra).

Lussu sposò Joyce Salvadori, poetessa fiorentina di origine marchigiana, partigiana ed intellettuale di notevole talento, i cui primi lavori furono apprezzati da Benedetto Croce (di Joyce si vedano i libri autobiografici L'olivastro e l'innesto, Fronti e frontiere; molto belle sono anche le sue traduzioni del poeta turco Hikmet).
Ebbero un figlio, Giovanni, che oggi è un affermato grafico editoriale.

Emilio Lussu fu amico di Silvio Mastio, di Emilio Cuccu e dell'eroe tempiese tenente Alfredo Graziani già "Tenente Grisoni" nel libro "Un anno sull' altipiano".