venerdì 25 giugno 2010

Dolore e forza delle donne in Malamore

Dolore e forza delle donne in Malamore 
L'ultimo saggio di Concita De Gregorio 

Si chiama “Malamore. Esercizi di resistenza al dolore” l’ultimo libro di Concita De Gregorio (Mondadori, 169 pagine, 16 euro). La scrittrice e giornalista, direttore de L’Unità, indaga nella quotidianità del mondo femminile, sul rapporto con gli uomini e la violenza. E se - scrive Concita De Gregorio - il dolore delle donne è “un compagno di vita, un nemico tanto familiare da esser quasi amico”, occorre allora trasformarlo in forza. Da “Malamore” pubblichiamo una parte dell’introduzione. 
di Concita De Gregorio 
Le donne provano la temperatura del ferro da stiro toccandolo. Brucia ma non si bruciano. Respirano forte quando l’ostetrica dice «non urli, non è mica la prima». Imparano a cantare piangendo, a suonare con un braccio che pesa come un macigno per la malattia, a sciare con le ossa rotte. Portano i figli in braccio per giorni in certe traversate del deserto, dei mari sui barconi, della città ai piedi su e giù per gli autobus. Le donne hanno più confidenza col dolore. Del corpo, dell’anima. È un compagno di vita, è un nemico tanto familiare da esser quasi amico, è una cosa che c’è e non c’è molto da discutere. Ci si vive, è normale. Strillare disperde le energie, lamentarsi non serve. Trasformandolo, invece: ecco cosa serve. Trasformare il dolore in forza. Ignorarlo, domarlo, metterlo da qualche parte perché lasci fiorire qualcosa. È una lezione antica, una sapienza muta e segreta: ciascuna lo sa. 

Maria Malibran, leggendario mezzosoprano, che impara a nascondere le lacrime durante le terribili lezioni di canto inflitte dal padre. Jaqueline du Pré che suona come un angelo il violoncello e sorride a ogni fitta alle ossa del braccio malato, il braccio che finirà per ucciderla. Denise Karbon che scia ingessata, Vanessa Ferrari che volteggia con una frattura al piede. La prostituta bambina che chiude gli occhi e pensa al prato della sua casa nei campi. La giovane donna che si lascia insultare e picchiare dal suo uomo perché pensa che quella sua violenza sia una debolezza: pensa di capirne le ragioni, di poterle governare, alla fine. Pensa che lui sia fragile quando strilla e quando alza le mani: si calmerà, basterà lasciargli il tempo, si placherà. La compagna del genio, la donna di Picasso che, lei sola, ne conosce e ne tollera le miserie: in questo più forte e più grande di lui. L’artista straordinaria che si lascia soggiogare in una vita ordinaria e la trasforma in poesia, la donna ordinaria che fa dei suoi giorni un capolavoro di pazienza. Le migliaia, milioni di donne che vivono ogni giorno sul crinale di un baratro e che anziché sottrarsi quando possono, quelle che possono, ci passeggiano in equilibrio: un numero da circo straordinario, questo di tentare di addomesticare la violenza la violenza degli uomini qualche volta andando a cercarla, persino. Perché è un antidoto, perché è un prezzo, perché non si può fare diversamente, perché il tempo che viviamo è questo e chiede uno sforzo d’ingegno per conciliare la propria autonomia con l’altrui brutale insofferenza. 

Le storie che ho raccolto sono scie luminose, stelle cadenti che illuminano a volte molto da lontano una grande domanda: cosa ci induce a non respingere, anzi a convivere con la violenza? Perché sopporta chi sopporta, e come fa? Quanto è alta la posta in palio? Alcune soccombono, molte muoiono, moltissime dividono l’esistenza con una privata indicibile quotidiana penitenza. Alcune ce la fanno, qualche altra trova nell’accettazione del male le risorse per dire, per fare quel che altrimenti non avrebbe potuto. Grandissimi talenti sono sbocciati da uno sfregio. Altrettanto grandi sono stati spenti. Per mille che non hanno nome, una cambia il corso della storia. Sono, alla fine, gesti ordinari. Chiunque può capirlo misurandolo su di sé. Sono esercizi di resistenza al dolore. 

«Le femmine servono ai cuccioli» dice il bambino seduto davanti alla tv, danno un documentario sugli animali. Poi ripete: «Lo sai mamma? Le femmine servono perché devono fare i cuccioli, i maschi da soli non li possono fare». 

Non c’è dubbio, i maschi da soli non possono. Però le femmine non «servono» solo a fare i cuccioli, penso di rispondere. Non dico niente, invece. Ci sono cose che non si spiegano con le parole. Lo capirà, lo vedrà, lo imparerà strada facendo. Certo, bisogna sempre ricominciare da capo. A ogni generazione di nuovo. Dimostrare, convincere. A cosa servono le femmine? Sembra proprio, nelle parole di un bambino, l’origine di tutte le questioni. Non sono sicura che a fare la stessa domanda a cento adulti, uomini e donne, si otterrebbero risposte convincenti. «Servono a far più bella la vita» mi ha risposto un amico credendo di dire cosa gradita, immagino sentendosi galante. Deve essere qui il cuore di tutto. Siamo proprio certi che le femmine servano a qualcos’altro che a fare i cuccioli, a rendere piacevole l’esistenza altrui? E loro, le donne, dietro le parole e i gesti di una sicurezza ogni giorno esibita in pubblico ne sono davvero convinte in privato? Cosa sono disposte a offrire a sopportare in cambio della possibilità di dimostrare che no, non servono solo a fare i cuccioli né ad allietare con la loro deliziosa presenza le impegnative vite altrui? Ma soprattutto, perché in fondo sentono, anche quando non lo dicono, di doverlo dimostrare? 

Vorrei poter dire che se devi uscire alle cinque per un impegno improrogabile e alle cinque meno dieci la persona con cui dividi l’esistenza ti pone una questione epocale da cui dipende l’esito della tua giornata, della settimana e della vita, ecco, quella è una prova di forza, una forma sottile di violenza che si esercita nel celebre quesito: dimostrami che cosa è più importante per te. Perché si sa che l’amore viene prima di tutto, per le donne è certamente così. Perché se hai interessi fuori, più importante deve essere sempre, tuttavia, l’interesse dentro. Perché se un uomo può dire scusami ma ho da fare, e dimenticarsi l’anniversario, la spesa, la festa di compleanno del bambino, la consegna a domicilio, una donna no, non può farlo. O meglio: può, ma paga un prezzo.

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