lunedì 21 giugno 2010

"Il libraio di Kabul"

"Il libraio di Kabul"


di Agnese Seranis


L'Afganistan non è più, per nessuna di noi, un paese che difficilmente collochiamo geograficamente. La guerra, che è seguita all'11 settembre 2001, è stata l'evento a causa del quale i telegiornali si sono riempiti di sue immagini: i suoi paesaggi, i suoi abitanti. E qualche regista ha colto nuovi temi e ispirazione per girare un film da offrire ai nostri occhi curiosi.
L'Afganistan...una terra senza colori perchè mancano gli alberi, i fiori. E, poi, le case di fango, le strade dei poveri casolari: polverose e piene di buche. Le percorrono uomini dall'aspetto rozzo, con i volti consumati dalla ruvidezza del clima ed un sorriso sdentato tra la barba scura. Ma quelle stesse strade sono percorse anche da ampi mantelli, neri o colorati, che si spostano veloci, qua e là, come chi non può attardarsi.
Quel mondo ci è venuto incontro un po' misterioso, un po' altro mentre tranquillamente sedevamo al tavolo della cena o nella comoda oscurità di un cinema; una realtà di cui ci sono arrivate, tuttavia, solo delle tracce, frammentate e non del tutto comprensibili.

" Il libraio di Kabul " ci apre, invece, la porta di una casa, ci fa penetrare nell'intimità di una famiglia afgana; una famiglia reale, non immaginata da uno scrittore che ha ricostruito ciò che deve essere ricostruito da segni rubati. No, Asne Seierstad, l'autrice - una giornalista norvegese - ha vissuto per un lungo anno nella famiglia di quel libraio, condividendo giorno dopo giorno la quotidianità della sua famiglia per poterne scrivere. Il libro ti prende subito; e quanto mai imperdibile è l'occasione di poter, attraverso gli occhi e le orecchie dell'autrice, vedere e udire ciò che lei ha visto e udito!


La famiglia del libraio di Kabul è una famiglia, diremmo noi, appartenente alla classe della media borghesia afgana. Il libraio è stato un ingegnere prima di dedicarsi totalmente alla raccolta e alla vendita di libri, per preservare qualcosa della cultura afgana, anche a rischio della propria vita. Quasi tutti i componenti della famiglia, inoltre, sono in grado di comunicare in inglese con l'autrice. Dunque, una famiglia i cui membri posseggono una certa scolarità e, sembrerebbe, una certa apertura alle sollecitazioni della cultura occidentale.
Chiuso il libro, dopo una lettura ininterrotta di due giorni, resto sul balcone a guardare il cielo nel crepuscolo. Qualcosa mi ha disturbato ma non riesco subito a metterlo a fuoco.

Pian piano la luminosità dell'aria si attenua, imbrunisce e l'universo afgano, in cui sono rimasta immersa per due giorni, mi si ripropone nella sua duplicità. Nella famiglia allargata del libraio la trama di relazioni maschili e femminili non si intrecciano né si confrontano; esistono, invece, due universi distinti, uno maschile e uno femminile, che non comunicano mai se non rispondendo a una gerarchia, stabilita da una civiltà radicata in una cultura che pone le donne al gradino più basso.
L'autrice in questa duplice realtà è - come lei stessa si autodefinisce - l'ermafrodito, l'alieno a cui è concesso di irrompere nell'uno e nell'altro universo. E lei osserva, annota, scrive e trascrive con l'occhio distaccato del cronista - terza parte. L'universo femminile che ci offre è abitato da esseri umani che sembrano inchiodati a un destino che non solo non viene messo in discussione ma che sembra quasi possedere un carattere di immutabilità, assicurata dalla trasmissione, da madre in figlia, dei valori della tradizione. E la legge, scritta o non scritta, che governa quel destino femminile viene rispettata sino alle estreme conseguenze. E prima di tutto dalle donne.

Le figlie, belle giovani e laboriose, sono preziosa merce di scambio per matrimoni contrattati al miglior offerente; quanto se ne potrà ricavare servirà per gli studi dei figli. Le figlie, se brutte, vengono, invece, date, in seconda scelta, a uomini vedovi e carichi di prole. Le rare figlie ribelli sono punite severamente e la punizione può tradursi anche nella perdita della vita, consenziente la stessa madre. Ma nelle donne della famiglia del libraio non si coglie che qualche alito di ribellione, subito soffocato. Le donne sembrano più incline a rinunciare, a nascondere, dietro la grata del loro burqa, non soltanto il volto ma anche i loro desideri d'amore e di libertà.

Sembra un mondo senza speranza. E l'autrice non cita un solo episodio in cui, bevendo il tè, qualcuna abbia chiesto del suo mondo, in cui lei sia riuscita, almeno nelle ragazze più giovani e intelligenti, a suscitare il più piccolo desiderio di cambiamento, una qualche curiosità. Com' è stato possibile ?, mi sono chiesta. Il libraio di Kabul mi è parso, allora, come la trascrizione di una lunga seduta osservativa, come quelle che fanno certi psicologi quando studiano il comportamento dei topi o delle scimmie. Quella trascrizione così puntuale, asciutta di ciò che l'autrice ha visto e documentato m'è parsa il risultato di un'esperienza infeconda.

Nel giugno del 2001 un incontro a Torino con alcune donne Afgane, appartenenti all'associazione Rawa (Revolutionary Association of the Women of Afganistan), m'aveva fatto sentire quel mondo non così estraneo, non così lontano; quelle donne sembravano avere i miei stessi desideri di libertà, sembravano animate da una profonda tensione di riscatto da una storia di oppressione percepita, ormai, come intollerabile; quelle donne stavano conducendo le nostre stesse battaglie - di noi donne dell'occidente - per ottenere un totale riconoscimento di sé-soggetti.
Le due rappresentazione dell'universo femminile afgano confliggevano, dunque, ed erano, una dall'altra, distanti anniluce. Ciò mi procurava una profonda inquietudine.


Nei quotidiani di oggi leggo l'articolo su alcune ragazze di Parigi le quali non vogliono andare a scuola senza lo hejab islamico (il velo) e persistono nel loro comportamento sino a farsi espellere. A fronte di ciò, a Torino, al World Political Forum, che si tiene in questi giorni, la signora Fatima, membro del governo afgano, appare vestita come una qualsiasi di noi, senza velo sui capelli, e discute di istruzione ed emancipazione delle donne del suo paese. E non posso tralasciare di ricordare, per associazione, la signora Shirin Ebadi, sebbene non afgana, Nobel per la pace per il 2003, che conduce da anni le sue battaglie per una società laica in Iran.
L'universo femminile mussulmano mi appare, così, segnato da contrasti e coloriture diverse (la nostra stessa storia non è dissimile,tuttavia !). Ma come interagire con esso?, mi chiedo. Noi, donne dei paesi industrializzati con la nostra acquisita emancipazione ( seppure imperfetta) possiamo comunicare con le donne che indossano il burqa/il velo sì da incrinare quell'abito mentale che da tanto tempo le soffoca? Possiamo tout court esportare l'immagine/identità femminile che, in qualche modo, qui, in occidente, ci andiamo costruendo? Il libro, scritto da Asne Seierstad, mi sembra negare questa possibilità, nell'immediato.

Uno spunto di riflessione, invece, me l'hanno suggerito, implicitamente, le interviste, ascoltate nel corso della trasmissione Mediterraneo di Rai3, a donne universitarie o laureate della Turchia - un paese che si autodefinisce laico - che hanno scelto di portare il velo, sebbene vi sia una legge che lo vieti, pena l'esclusione dall'università o dal lavoro. Il messaggio che io vi leggo, in questa scelta, è, certamente, la richiesta di un diritto alla libertà individuale. Ma, io credo che, soprattutto, venga rivendicato un diritto più vasto: il diritto di ogni cultura a tracciarsi il proprio percorso nel tempo, affinché il cambiamento sia il frutto di una propria elaborazione e non un'imposizione, talvolta violenta, dall'esterno. E, dunque, anche il percorso dell'emancipazione femminile. Il movimento delle suffragiste nell'ottocento e il movimento femminista degli anni '60 sono nati dall'interno del proprio universo culturale-sociale, da uno scatto di coscienza che poi si è diffuso spontaneamente per una qualche, forse latente, attesa di affrancamento dalla soggezione maschile.
Non ci resta, dunque, che attendere che sia la loro stessa mano a liberare i propri capelli.


Asne Seierstad a poco più di trent'anni, è forse la più giovane e apprezzata corrispondente di guerra d'Europa: per i suoi reportage dal Kosovo, dalla Cecenia e dall'Afghanistan ha ricevuto moltissimi riconoscimenti nazionali e internazionali, fra i quali il premio comemigliore giornalista televisiva norvegese nel 1999, quello come migliore scrittrice del 2000 per il mensile Elle e il prestigioso Free Speech Award nel 2002 come migliore reporter di guerra. Pare che abbia venduto, in tutto il mondo, circa 23 milioni di copie del suo libro. Mi piacerebbe tanto pensare che abbia donato una parte, anche minima, dei suoi guadagni a una delle organizzazioni afgane che cercano di promuovere l'istruzione delle donne di quel paese.

Asne Seierstad
Il libraio di Kabul

Sonzogno editore, 2003


Il desiderio d'amore per una donna è tabù in Afghanistan. E' proibito sia dal rigido concetto d'amore dei clan sia dai mullah. I giovani non hanno il diritto di incontrarsi, amarsi e scegliersi.
Chi non rispetta le regole possono venire uccisi a sangue freddo. Nel caso si debba scegliere di punire con la morte la malasorte tocca alla donna.
Le donne sono prima di tutto merce di scambio o di compravendita. Il matrimonio è solo un contratto che viene stipulato tra famiglie. Per secoli le donne afgane hanno dovuto accettare le ingiustizie che si commettono contro di loro. Sono le donne stesse a darne testimonianze attraverso il canto e le poesie, canti che non sono pensati per essere ascoltati da qualcuno e le cui eco risuona tra i monti e il deserto.

"Le donne afgane protestano con il suicidio o con il canto" scrive il poeta afgano Sayd Bahodine Majrouh in un libro che riporta le voci delle donne pasthun. Ha raccolto le liriche con l'aiuto della suocera.
Majrouh è stato ucciso dai fondamentalisti a Peshawar nel 1988.


Crudeli, voi che vedete un vecchio avvicinarsi al mio letto
e mi chiedete perché piango e mi strappo i capelli

Oh, mio Dio! Hai fatto scendere ancora su di me la notte oscura
e di nuovo tremo da capo a piedi
perché devo infilarmi in quel letto che odio

Ma le donne delle poesie sono anche ribelli, rischiano la vita per l'amore dove la passione è proibita e la punizione impietosa

Dammi la tua mano, mio amato, ci nasconderemo nel campo
per amarci o cadere insieme sotto i colpi del pugnale

Salto nel fiume, ma la corrente non mi trascina via con sé.
Mio marito è fortunato, vengo sempre rigettata sulla sponda del fiume.

Domani mi uccideranno per causa tua.
Non dire che non mi hai amato.

Sayd Bahodine Majrouh

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