martedì 23 febbraio 2010

Giancarlo Pajetta citato in Lessico famigliare

Giancarlo Pajetta (Torino, 24 giugno 1911 – Roma, 13 settembre 1990) è stato unpolitico e partigiano italiano.

Nato in una famiglia benestante da genitori che, pur non essendo iscritti al partito, si dichiaravano comunisti (il padre Carlo era avvocato e la madre Elvira Berrini era maestra elementare), fin da giovane espresse le sue idee antifasciste frequentando il Liceo Classico Massimo D'Azeglio di Torino e si iscrisse al Partito Comunista d'Italia. Per questo fu espulso per tre anni da tutte le scuole d'Italia nel 1927 e condannato a due anni di reclusione, che rappresentarono per lui, ancora minorenne, una prova durissima.

Pajetta, da giovane, si formò intellettualmente leggendo i classici del movimento operaio ed alcuni autori anarchici. Nei soggiorni di prigionia studiò le lingue, lesse Einaudi,Gaetano De Sanctis, Gentile, Croce, Volpe, oltre a Verga ed i romanzieri francesi e russi dell'Ottocento.[1]

Nel 1931 andò in esilio in Francia e con lo pseudonimo di "Nullo" divenne segretario della federazione giovanile comunista, direttore di "Avanguardia" e rappresentante italiano nell'organizzazione comunista internazionale.

Nel 1933 andò in missione segreta a Parma con l'obiettivo di convincere alcuni membri del fascismo ad abbandonare il regime, ma fu scoperto dalla polizia fascista il 17 febbraio dello stesso anno: fu quindi condannato a ventuno anni di carcere per "attività eversiva". Dopo alcuni trasferimenti carcerari venne liberato a seguito della caduta del fascismo il 23 agosto del1943, e successivamente prese parte alla Resistenza partigiana, entrando a far parte, con Luigi Longo, Pietro Secchia, Giorgio Amendola eAntonio Carini, del Comando generale delle brigate d’assalto Garibaldi, come "certifica" Luigi Longo a p. 38 de "I centri dirigenti del PCI nella Resistenza", Editori Riuniti, Roma, 1973.

Nel 1944 fu nominato, insieme a Ferruccio Parri ed Alfredo Pizzoni, presidente del Comitato di Liberazione Nazionale dell'alta Italia: da questa posizione egli intavolò trattative diplomatiche con gli alleati anglo-americani e con il futuro Presidente del Consiglio dei Ministri Ivanoe Bonomi. Divenne anche Capo di Stato maggiore (ovvero vice comandante nazionale) delle forze militari partigiane.

Nel 1948 entrò nella segreteria nazionale del partito, del quale fu il responsabile esteri (membro tra l'altro del Consiglio di Presidenza del Comitato Italia-Vietnam), e ne fece parte fino al 1986, anno in cui fu destinato all'incarico, molto più defilato, di presidente della commissione di garanzia.

Fu deputato al Parlamento nazionale dal 1946 fino alla morte, e al Parlamento europeo dal 1984. Morigerato nella vita privata (viveva in un piccolo appartamento di un anonimo condominio di via Monteverde), in Parlamento e sui giornali dell'epoca Pajetta era noto per la veemenza e la causticità delle sue orazioni: fu lui che nella primavera del 1953 - durante la discussione della cosiddetta legge truffa - entrò a Montecitorio con una riga di sangue che scorreva dal capo, lamentando che un cordone di "celerini [2] di Scelba schierato davanti alla Standa di via del Corso" aveva impedito il passaggio di alcuni deputati socialisti e comunisti verso la Camera, e che alla sua esibizione del tesserino di parlamentare avevano risposto manganellandolo. Fino agli anni sessanta capitò spesso che alla Camera, nella foga della discussione, saltasse fuori dal suo banco per andare ad "invadere" le postazioni altrui ed era perciò considerato anche una figura "pittoresca" della politica italiana di allora. Grande fu anche la sua capacità oratoria che gli permetteva, con una sola battuta, di mettere in ridicolo il discorso degli avversari politici. Per questo fu l'uomo di punta del PCI durante le tribune politiche, alle quali parteciperà assiduamente, contribuendo a rendere celebri alcune scene di questa trasmissione.

Nel 1956 fu inviato dal partito a Mosca insieme a Celeste Negarville. Qui, come Negarville, rimase scosso dal racconto compiaciuto che Nikita Khruščёv fece loro riguardo alle modalità con cui Beria era stato eliminato fisicamente dalla nuova dirigenza sovietica.[3]

Fu più volte direttore de L'Unità e, per breve tempo, del periodico politico-culturale Rinascita [4].

Esponente della corrente riformista rappresentata da Giorgio Amendola prima e Giorgio Napolitano poi, fu uomo di grande intelligenza, di grande abilità dialettica e molto amato dai militanti (come si vide, da ultimo, nella grande partecipazione di popolo al suo funerale). Fu sempre assolutamente leale verso il partito, inteso come entità collettiva rappresentata dai suoi dirigenti, anche quando le sue opinioni personali divergevano dalla linea politica espressa dai segretari, prima Palmiro Togliatti e poi Enrico Berlinguer: di quest'ultimo tenne comunque l'orazione funebre, quando la sua morte improvvisa lasciò il partito stordito e in angoscia (i militanti erano allora milioni), proprio perché universalmente riconosciuto come l'uomo che in quel momento ne rappresentava meglio la storia e l'unità.

Nella sua veste di reponsabile delle relazioni estere con i "partiti fratelli", fu inviato al congresso del PCUS del 1980 a Mosca ad esprimere il dissenso del PCI dalla politica diBreznev in Afghanistan ed in Polonia, ed in quella circostanza la sua allocuzione fu fatta tenere non nella sala del Congresso al Cremlino bensì nella Casa del Sindacato, dinanzi ad una gelida platea che non applaudì.

Fu lui ad accogliere il segretario del MSI Giorgio Almirante a Botteghe Oscure quando il leader missino volle andare a rendere omaggio alla Camera ardente di Berlinguer, provocando una certa sorpresa tra l'immensa folla che attendeva di entrare.

Quattro anni dopo, alla morte di Almirante nel 1988, fu lui stesso a rendere omaggio alla camera ardente dello storico avversario politico, suscitando anche in questo caso una certa sorpresa.

Al momento della scelta del successore di Berlinguer, Pajetta era considerato ormai troppo anziano per partecipare alla guerra di successione (ed inoltre egli era molto caro al popolo del PCI ma pochissimo al suo gruppo dirigente) ed inutile fu la sua opposizione al progetto di Achille Occhetto, ovvero la trasformazione del PCI inPartito Democratico della Sinistra.

Morì all'improvviso la notte del 13 settembre del 1990 nella sua casa di Roma, di ritorno da una Festa dell'Unità, prima di vedere la fine del suo amatissimo partito.

Il suo funerale (al quale parteciparono circa 200.000 persone, tra cui anche il suo tradizionale rivale, anche nel campo della politica estera,Giulio Andreotti) fu accompagnato dalle note dell'"Internazionale" e di "Bandiera Rossa" e la sua bara fu seguita da una bandiera rossa confalce e martello, proprio come lui stesso aveva sempre immaginato.

Fu tra gli intellettuali che firmarono un manifesto, pubblicato sull' Espresso con cui accusarono il commissario Calabresi di essere un torturatore e di essere responsabile della fine dell'anarchico Pinelli.

Nel 1947 fu il protagonista dell'occupazione della Prefettura di Milano in seguito alla rimozione del prefetto di Milano Ettore Troilo, da parte del ministro degli interni Mario Scelba.


La firma di Pajetta era costantemente presente sulla stampa comunista, sia su l'Unità che su Rinascita. Ma fu solo alla fine della sua carriera politica che, liberato (pur controvoglia) dagli impegni politici pressanti, cominciò a scrivere libri, dalla forte caratterizzazione autobiografica.

Nacquero così:
"Le crisi che ho vissuto" del 1982,
"Il ragazzo rosso" (la sua autobiografia pubblicata nel 1983),
e "Il ragazzo rosso va alla guerra" del 1986.

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